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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 103, April 2007

 

 

La dimensione ecclesiologica

degli Orientamenti

 

 

Rev. Prof. Philip Goyret

 Pontificia Università della Santa Croce

 

 

1. Introduzione

La parte degli Orientamenti per una Pastorale degli Zingari di stampo più ecclesiologico è, senza dubbio, il capitolo II, intitolato «Sollecitudine della Chiesa». Mentre le prime due sezioni del capitolo versano sul carattere pellegrinante nel contesto della storia della salvezza e nella vita degli Zingari, nella terza sezione si affronta la pastorale degli Zingari dalla prospettiva della cattolicità della Chiesa e della sua missione. Senza voler sottovalutare l’importanza dell’itineranza nella riflessione ecclesiologica e meno ancora rispetto all’argomento che ora ci interessa, l’angolatura dalla quale si muove questa relazione è quella della cattolicità. Procedendo così si riesce più facilmente a mettere in evidenza, a mio parere, i fondamenti ecclesiologici sui quali la pastorale degli Zingari può essere meglio realizzata in vista di un risultato solido, duraturo ed efficace.

Se si leggono gli Orientamenti con attenzione, si percepisce che la cattolicità non è solo presente nei nn. 29-33, specificamente dedicati a questo tema, ma permea l’intero documento. In questo mio intervento non vorrei tuttavia invadere il terreno dei pastoralisti o dei canonisti, ai quali sono state affidate altre relazioni; mi limiterò perciò a tracciare, nella prima parte, i lineamenti teologici generali della cattolicità, sia in ambito dottrinale che nella sua applicazione alla vita missionaria della Chiesa. Nella seconda parte, tenterò di mettere in luce i risvolti della cattolicità che più direttamente incidono nel modo d’impostare la pastorale degli Zingari. Non mancheranno alcuni spunti su aspetti particolari da tener specialmente presenti. 

2. La “cattolicità” della Chiesa cattolica

Quando nel linguaggio colloquiale si parla della Chiesa «cattolica», abitualmente intendiamo questo aggettivo come denominazione specifica della comunità dei cristiani che fa capo al vescovo di Roma; essa si distingue dalla Chiesa ortodossa, dalle Chiese non calcedoniane, dalla Chiesa veterocattolica, ecc. Si tratta di un modo di parlare in qualche misura risalente a Paciano, del IV secolo, quando dice «Christianus mihi nomen est, catholicus vero cognomen»[1]. Questo senso non è però quello richiamato dalla professione di fede niceno-costantinopolitana quando parla della «unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam», nel quale i quattro aggettivi manifestano, ciascuno da una prospettiva specifica, la realtà teologica di ciò che chiamiamo «Chiesa». A sua volta, all’interno di questa prospettiva teologica, i quattro attributi possono essere contemplati come notae Ecclesiae o come proprietates. Le notae Ecclesiae si configurano, almeno in linea teorica, come vie per riconoscere la vera Ecclesia, e diedero luogo alla celebre via notarum, ampiamente usata in chiave apologetica e controvertistica nel periodo della controriforma, nella polemica fra cattolici, luterani e riformati[2].In questa sede tuttavia ci interessa approfondire sulla cattolicità intesa come proprietas Ecclesiae: ossia, come quell’aspetto della Chiesa appartenente al proprium della sua essenza teologica, e che perciò trascende ampiamente il livello denominativo e manifestativo.

Occorre subito dire che il termine «cattolico» non è usato mai nel nuovo testamento in riferimento alla Chiesa. La sua origine in lingua greca risale all’avverbio kathólou, col significato di «in generale, in totale», anche nel senso di universalità[3]. Non è indifferente per noi il fatto che nell’area umanista greca il termine è usato più come «secondo la totalità»[4]. In ambito ecclesiale e come attributo della Chiesa, troviamo per la prima volta il vocabolo in Ignazio di Antiochia, nel contesto della legittimazione della comunità che è presieduta dal vescovo. Agli Smirnesi egli infatti scrive: «Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica»[5]. Nelle primissime professioni di fede la nozione è assente[6],ma nell’appendice alla professione di fede di Nicea già si parla della «Chiesa cattolica e apostolica», e in quella di Costantinopoli, prevalsa fino ai nostri giorni, resta definitivamente coniata l’espressione «Chiesa una, santa, cattolica e apostolica»[7].

Ma che cosa si vuol esprimere quando si parla della «cattolicità» della Chiesa? Guidati dall’origine etimologica del termine, il pensiero s’indirizza subito al carattere universale della Chiesa, in quanto che il vangelo da essa annunciato è destinato assolutamente a tutti gli uomini di tutti i tempi, senza distinzione di razza, sesso, lingua o nazione. Nella missione della Chiesa, cioè, non trova spazio la discriminazione. Nella prima patristica, la cattolicità è presentata in contrasto con il carattere «settario» delle eresie, che si trovano in una determinata nazione o presso un gruppo determinato di cristiani, senza la pretesa di rivolgersi all’intera umanità[8]. Per la vera Ecclesia, invece, le parole del Signore prima dell’ascensione — «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni...» (Mt 28,19) — significano un orizzonte missionario illimitato. Questa prospettiva della cattolicità segue un criterio piuttosto quantitativo e spesso è chiamata «cattolicità estensiva», la quale a sua volta può essere intesa come di fatto già realizzata (cattolicità effettiva), o in modo intenzionale (la destinazione universale del vangelo). La Chiesa, infatti, era già cattolica nel giorno della Pentecoste.

È significativo che nel primo testo sulla cattolicità in ambito ecclesiale — quello di Sant’Ignazio di Antiochia, già citato —, essa è collocata in relazione diretta alla presenza di Cristo. Sebbene il senso esatto cercato in quella frase sia oggetto di diverse interpretazioni[9], possiamo certamente pensare che la Chiesa è chiamata cattolica perché, avendo Cristo, possiede anche tutti i mezzi di salvezza. Infatti, la teologia posteriore ha tematizzato la cattolicità in questa direzione, intesa come «cattolicità intensiva»: solo nella Chiesa cattolica troviamo l’universalità dei mezzi di salvezza. Nel Concilio Vaticano II la Chiesa è chiamata «sacramento universale di salvezza» (LG 48) anche in questo senso «intensivo». La Pentecoste testimonia pure questa seconda prospettiva della cattolicità. Presi insieme i due sensi, possiamo dire che la Chiesa è cattolica perché in essa troviamo tutti i mezzi di salvezza destinati a tutti gli uomini: tutti per tutti.

Ma l’aspetto più meraviglioso della Pentecoste è senz’altro il miracolo delle lingue. Presso quel pubblico proveniente da tutte le regioni del mondo, come simboleggiato dall’elenco dei popoli riportato in (At 2,9-11), il messaggio annunciato dagli apostoli era capito dagli ascoltatori ciascuno nella propria lingua. Emerge qui un altro aspetto della cattolicità, in realtà condizione necessaria affinché essa possa essere simultaneamente realizzata in modo intensivo ed estensivo, e che può essere chiamata cattolicità «qualitativa». Il vangelo, cioè, va annunciato in modo aperto a tutte le culture. Risulta illuminante accertare come nella Cost. Lumen gentium la parte dedicata alla missione, alla fine del capitolo II, è introdotta con un discorso sulla cattolicità, intesa prevalentemente come cattolicità «qualitativa». Si dice in concreto: «In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si accrescono con l'apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre, e coi loro sforzi verso la pienezza dell'unità» (LG 13/3). In questo testo si può inoltre intravedere il doppio senso della cattolicità qualitativa: essa non consiste solo nell’apertura universale dell’annuncio, ma anche nella capacità della Chiesa d’incorporare in sé l’immensa varietà della condizione umana in tutte le sue legittime manifestazioni. In altre parole: il linguaggio del vangelo è universale, e l’universo può essere ricapitolato nel vangelo.

Quest’ultimo avvia la nostra riflessione verso un’interessante direzione. Ci accorgiamo che il discorso fatto non è una questione di «strategia missionaria», non è il frutto dell’iniziativa di uomini specialmente intelligenti, i quali scoprono che con una presentazione del messaggio cristiano seducente ed attrattiva, si garantisce una sua buona accoglienza nelle diverse culture. Si tratta di qualcosa molto più profonda, non proveniente dai portatori dell’annuncio, ma derivata dal suo contenuto. L’apertura universale — cattolica — del vangelo sgorga cioè dallo stesso vangelo, e perciò la cattolicità «integrale» della missione — estensiva, intensiva, qualitativa — dipende sostanzialmente dalla fedeltà allo stesso vangelo. Ciò è alla base di quella definizione di cattolicità intesa come «universalis capacitas unitatis», tanta cara al Congar[10]: l’unità in qualche modo precede la cattolicità, sia in un senso che potremmo chiamare ontologico — la realtà da diffondere è una e unica —, sia in senso per così dire «morale»: non si può «sacrificare» l’unità in vista di una cattolicità ipoteticamente più incisiva, più facilmente estensiva. Come illustrato da Sant’Agostino con una bella immagine, la Chiesa è come una vite che, sviluppandosi, si estende per numerosi rami: non come un mucchio di rami sciolti, ma tutti uniti nello stesso tronco[11].

Il discorso si completa ancora con altri aspetti della cattolicità. Da una parte, la «destinazione universale» riguarda non solo «tutti gli uomini», ma tutti gli aspetti dell’uomo. La redenzione infatti non si rivolge solo all’anima, ma all’uomo nella sua integrità, includendo corpo, cuore, cultura, vita di relazione, arte, ecc. Muovendoci in questa direzione, la strada passa necessariamente per l’apprezzamento positivo e rispettoso dei valori umani. Con parole del Concilio, «la Chiesa o popolo di Dio, che prepara la venuta di questo regno, nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze, le consuetudini del popolo, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e la eleva» (LG 13/2).

Emerge così la purificazione delle culture come un’altro aspetto della cattolicità della missione, il quale non può essere accantonato, neppure quando l’alternativa si presenta come una strada più facile da battere. Se l’accoglienza del vangelo implica la conversione del cuore, non dovrebbe destare sorpresa che essa richieda anche il cambiamento delle consuetudini non consoni con la pratica del vangelo. Quando l’attività missionaria evita di purificare la cultura, essa resta al solo livello di «cattolicità di denominazione», scostandosi dalla sostanza teologica. Altrettanto dovremmo dire sulla consolidazione ed elevazione della stessa cultura, che in realtà non può mancare se si cerca una sua purificazione davvero effettiva.

Infine, conviene pure ricordare che la cattolicità è una proprietà che appartiene alla Chiesa non solo nella sua globalità, ma anche nella sua realizzazione in ogni singola Chiesa locale. Dire che una diocesi è cattolica vuol dire che in essa la missione si realizza «cattolicamente», in tutti i diversi sensi appena menzionati. In definitiva, in ambito ecclesiologico località e cattolicità si richiamano reciprocamente. 

3. La cattolicità nell’evangelizzazione

Occorre ora scendere dal livello teoretico e rivolgere la nostra attenzione ad alcuni eventi della storia della Chiesa, in vista di accertare in che misura questi concetti trovano riscontro nella sua vita missionaria. Proprio durante l’avviamento dell’evangelizzazione, gli Atti degli Apostoli riportano la problematica creatasi a proposito della «distribuzione quotidiana» del cibo, perché le vedove elleniche venivano trascurate. Ciò è stato ricordato da Benedetto XVI nell’Enciclica Deus caritas est, per indicare che è la carità che non dovrebbe subire discriminazioni; a Gerusalemme invece si era arrivati ad «una disparità tra la parte di lingua ebraica e quella di lingua greca» (DCE 21). Per sbloccare la situazione, gli apostoli decidono di affidare il servizio delle mense a «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» (At 6,3), in modo tale da poter dedicarsi interamente al mistero della parola.

Sebbene si tratti di un momento di «decollo missionario», con tante cose da fare, gli apostoli sanno che non possono lasciare alle sue spalle una situazione di emarginazione. Consapevoli dei loro limiti, cercano e trovano nuove risorse. Con linguaggio attuale, potremmo dire che la cattolicità estensiva, da realizzare fuori di Gerusalemme, non si poteva avviare a scapito di quella intra muros, come se ci fossero persone non destinate a ricevere l’influsso di carità proveniente dal vangelo. Il vangelo è per tutti — ebrei e greci —, e questi «tutti» non sono solo quelli fisicamente lontani, ma anzitutto quelli di casa nostra.

Il primo millennio fu un periodo di grande espansione missionaria e possiamo dire che dalla cattolicità «intenzionale» ci si muove verso la cattolicità «effettiva». Potremmo considerare questi secoli anche come cattolicità qualitativa: in quel periodo si svilupparono, infatti, diversi riti e tradizioni, man mano che il vangelo giungeva a popoli diversi. Verso la fine dell’età media, però, sembrerebbe che lo slancio missionario rallenti, sebbene ci fosse una popolazione in numero non indifferente di ebrei e di musulmani con cui si era in contatto. Essi erano però guardati come «infedeli chiusi al vangelo» e non impostava nemmeno il tentativo di conversioni, rallentando così seriamente la cattolicità estensiva dell’evangelizzazione.

L’inizio dell’era moderna è segnata dalle scoperte geografiche, le quali fecero scattare un nuovo slancio missionario verso quegli infedeli differenti, in quanto erano «aperti al vangelo». Evidentemente, l’evangelizzazione delle nuove terre non fu realizzata in modo uniforme, né temporalmente né geograficamente, ma possiamo dire che, in generale, la cattolicità estensiva prevalse su quella qualitativa. Il cristianesimo di matrice europea fu spesso «esportato» ai territori di missione, creando situazioni problematiche sul versante dell’inculturazione.

In questa sede non vale la pena analizzare criticamente queste posizioni dal punto di vista della storiografia. È sufficiente percepire l’importanza della cattolicità «integrale» per l’evangelizzazione; quando essa è trascurata, anche solo parzialmente, s’impoverisce non poco il risultato finale. 

4. La cattolicità nella pastorale degli Zingari

Come è evidente per tutti e come è stato chiaramente denunciato negli Orientamenti (cfr. n. 20), per molto tempo la popolazione zingara è stata ignorata dalla missione evangelizzatrice della Chiesa. Da un punto di vista ecclesiologico, potremmo dire che si è trattato di una situazione di mancanza di cattolicità estensiva. Solo nel secolo scorso si è risvegliato lo slancio missionario verso gli Zingari, sebbene ancor’oggi in modo lento e frazionato. È comunque un grande passo in avanti che, almeno da un punto di vista istituzionale, la Chiesa abbia preso consapevolezza di questo aspetto della evangelizzazione. Il fatto che siano stati pubblicati questi Orientamenti e che siano riuniti da un organo della Santa Sede, per approfondirne la conoscenza, i direttori nazionali della pastorale per gli Zingari, ne è una grande testimonianza. Potremmo dunque dire che siamo in marcia verso la cattolicità effettiva.

Molto opportunamente, però, gli Orientamenti avvertono la necessità di essere attenti alla cattolicità «qualitativa», in vista di una efficace evangelizzazione degli Zingari. Ciò che regge per tutta la Chiesa — il fatto che la cattolicità qualitativa è condizione per la cattolicità quantitativa o estensiva — è più che mai vero nel nostro caso specifico. È necessario, cioè, penetrare nella loro cultura facendo proprie le loro angosce e le loro speranze, in modo tale che il vangelo uno ed unico sia annunciato adeguatamente alla loro mentalità e alle loro legittime tradizioni (cfr. n. 31). Ciò dovrebbe rispecchiarsi anche in ambito liturgico e catechetico.

Battendo la strada della cattolicità qualitativa si assume meglio, inoltre, la prospettiva dell’apporto degli Zingari alla Chiesa. Non possiamo dimenticare che una vera comunione fra persone — intesa come traguardo della missione «cattolica» — nasce quando ogni creatura umana è rispettata come figlio e immagine di Dio, e le differenze tra le persone sono accettate come doni per tutti. La «evangelizzazione cattolica» degli Zingari, cioè, arricchisce la Chiesa cattolica.

Siamo così arrivati, da un’angolatura ecclesiologica, ad una strada a senso unico: o il vangelo è predicato «in lingua zingara», o difficilmente verrà accolto. In questa ottica trova il suo orizzonte di comprensione l’espressione, applicata alla Chiesa, di farsi «zingara fra gli zingari». Essa non dovrebbe restare ferma al solo livello di slogan, ma trovare strumenti concreti nella realtà pastorale. Una delle immagini bibliche più belle richiamate dagli Orientamenti è quella del popolo d’Israele pellegrinante nel deserto in marcia verso la Terra Promessa (n. 23). In quest’immagine non è da tralasciare il fatto che l’arca dell’alleanza «si sposta con il popolo e lo accompagna nel cammino»; potremmo dire che i mezzi di salvezza, rappresentati nel contenuto dell’arca, non solo piovono dall’alto, come la manna, ma restano con loro, marciano con loro, diventano parte di loro. Come ribadito negli Orientamenti, «la specificità della cultura zingara, in effetti, è tale da non rendere a loro consona un’evangelizzazione semplicemente “dall’esterno”, facilmente giudicata come un’invadenza» (n. 38). In questo ambito va certamente privilegiata, a mio avviso, la promozione di ministri zingari, come fu auspicato nel V Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari, tenuto a Budapest nel 2003[12].

Ciò è direttamente legato al riconoscimento pieno della qualità di soggetto della popolazione zingara nell’opera di evangelizzazione. Da una loro considerazione esclusivamente come oggetti dell’agire missionario può risultare solo una relazione di obbedienza e soggezione. In questa ottica riduttiva, il loro inserimento pieno nella comunione ecclesiale è concepito come uniformazione e come disponibilità a ricevere norme imposte dall’alto; mentre il genio zingaro e il loro modo caratteristico di avvicinarsi a Dio difficilmente trovano l’occasione e lo spazio per esprimersi[13].

Occorre dire invece che, affinché il discorso sulla pastorale specifica non stia solo sulla carta, è necessario un positivo apprezzamento della cultura zingara. Ciò va inteso come stima reale dei loro valori umani in sé stessi, non unicamente nel loro riferimento formale a Dio. Solo successivamente questi valori, differenziati e specificamente zingari, vanno «ricapitolati in Cristo», cioè vivificati nello Spirito e assunti nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Un’ipotetica popolazione aculturale, senza valori positivi propri, andrebbe semplicemente incorporata nel mainstream della pastorale ordinaria territoriale. Non è questa la situazione degli Zingari: occorre una pastorale specifica perché si tratta di una cultura specifica, con valori positivi che vanno rispettati e difesi e di cui la Chiesa si arricchisce.

Fra i valori presenti presso gli Zingari e che costituiscono un vero arricchimento per l’intera Chiesa spicca senz’altro il loro carattere itinerante, in quanto risulta per tutti un segno vivente dell’indole escatologica della Chiesa: siamo tutti in cammino verso la casa del Padre, e abbiamo bisogno di ricordarci continuamente che «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14). Questo è giustamente richiamato negli Orientamenti in modo esteso e significativo (nn. 26-28). In un mondo di materialismo sfrenato come l’attuale, una visione genuinamente cattolica da parte di tutti i fedeli dovrebbe scoprire negli Zingari questo autentico tratto ecclesiale che è necessario per tutti.

La specificità della Pastorale degli Zingari è espressione di cattolicità qualitativa, e come tale va esercitata anche all’interno della cattolicità «intensiva», ossia, dell’intero vangelo. Non si tratta, cioè, di mettere gli Zingari in contatto con una versione ridotta del medesimo: la Chiesa è tenuta a offrire loro tutti i mezzi di salvezza che Cristo le affidò. Ciò avvia la nostra riflessione verso due interessanti direzioni. Da una parte, occorre ripensare la situazione attuale e chiederci coraggiosamente se effettivamente esistono o meno le strutture e le risorse per tradurre in fatti la «cattolicità intensiva». Evidentemente, siamo agli inizi e sarebbe ingenuo pretendere di avere tutto e subito, ma è un discorso che va impostato seriamente se si vuole puntare verso un futuro promettente.

D’altra parte, gli stessi Orientamenti ci mettono davanti alla «testimonianza viva di una libertà interiore» (n. 28) presente nella vita zingara, per la quale essi non si sentono legati a preconcetti mentali, più frequenti nella mentalità dei gağè. Ciò rappresenta una sfida per la cattolicità intensiva, in direzione apparentemente opposta: non è solo questione di annunciare tutto il vangelo, ma in qualche modo solo il vangelo. Con questo non si vuole sottovalutare l’importanza dei «mezzi ausiliari», ma semplicemente si vuole avvertire che, quando la libertà interiore è autentica, l’unica cosa veramente convincente è la verità nella sua nudità. Allo Zingaro autentico, cioè, non lo si inganna facilmente: o gli si presenta il vangelo genuino, non oscurato dalle nostre interpretazioni, o rischiamo il fallimento.

Un altro aspetto della cattolicità, già menzionato in modo generico, è quella riferita all’integrità dell’uomo al quale la missione è indirizzata. Ne parlano gli Orientamenti nel n. 35: «Poiché la salvezza raggiunge l’uomo tutto intero, l’evangelizzazione non può certo trascurare quegli aspetti culturali, linguistici, tradizionali, artistici, ed altri ancora, che plasmano l’essere umano e i popoli nella loro integrità». Ciò diventa specialmente importante nel caso concreto dello Zingaro, perché in lui queste dimensioni si trovano intrecciate in modo molto più intenso che in altri popoli; un’evangelizzazione che ignorasse questi aspetti sarebbe percepita come non rivolta a loro. Bisogna dunque indirizzare l’evangelizzazione all’immensa varietà che prende il volto zingaro, consapevoli anche della sua evoluzione nel tempo. Va dunque assunta in Cristo una realtà zingara che, come il resto dell’umanità, cambia e progredisce.

Ne segue anche la dovuta purificazione della loro cultura, in quegli aspetti non consoni al vangelo: di questo gli Orientamenti danno un chiaro segnale, indicando pure ambiti concreti bisognosi di superamento (cfr. nn. 39-42). Da un punto di vista ecclesiologico, un’ipotetica impostazione pastorale non attenta alla purificazione della cultura non trova spazio e susciterebbe grande perplessità, perché presupporrebbe un’antropologia frammentata, nella quale la dimensione religiosa e quella culturale percorrono binari diversi.

Infine, dovrebbe risultare chiaro che la sollecitudine pastorale verso gli Zingari non è solo compito di istituzioni promosse dalla Santa Sede o dalle Conferenze episcopali, ma rientra pienamente nell’ambito delle Chiese locali. Ossia, il vescovo locale non può disinteressarsi della popolazione zingara presente nella sua diocesi, scaricando l’intera responsabilità sulle strutture transdiocesane di pastorale zingara, se esistono. A ragione gli Orientamenti esortano i vescovi, dicendo: «la minoranza zingara deve attirare dunque la loro attenzione pastorale, evitando che la caratteristica “internazionale” di questa popolazione si traduca in mancanza di una sua percezione a livello locale e regionale» (n. 85). Ancora un’altra volta bisogna ribadire che la cattolicità estensiva non riguarda solo i confini estremi della terra, ma comincia con le situazioni locali di emarginazione. In modo simile si dovrebbe riflettere, a mio avviso, all’interno dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, i quali condividono, anch’essi, la cattolicità della Chiesa, e possono quindi partecipare, secondo il proprio carisma, alla sollecitudine ecclesiale a favore degli Zingari. 

5. Conclusione

Lo studio della missione della Chiesa rivolta agli Zingari, contemplato dal punto di vista della cattolicità, non si riduce alla sola questione dell’ineludibilità di tale azione, avvertendo che la Chiesa non può voltare loro le spalle senza tradire la sua identità. Esso mette anche in evidenza diverse esigenze concrete sul modo d’impostare la loro evangelizzazione, in vista di una reale incidenza nella loro vita e nel loro modo di essere Chiesa. Potremmo sintetizzare questo intervento dicendo che l’evangelizzazione degli Zingari va fatta coniugando in modo simultaneo la cattolicità estensiva, intensiva e qualitativa della Chiesa. Procedendo così potremmo sicuramente dire, richiamandoci da un’altra prospettiva alle parole di Sant’Ignazio di Antiochia citate all’inizio di questa relazione, che là dove l’evangelizzazione si realizza davvero «cattolicamente», ivi è Gesù Cristo.

 

 1] Ep. 1: De catholico nomine, 4, in PL 13, 1055.

[2] Questo tema fu studiato in modo esauriente da G. Thils in Les Notes de l'Eglise dans l'Apologétique catholique depuis la Réforme, Duculot, Gembloux 1937. Il tema specifico della cattolicità è affrontato dallo stesso autore in La notion de catholicité de l'Église dans la théologie  moderne, in EThL 13 (1936) 5-73.

[3] Cfr. jugie, m., voce Cattolicità, in Enciclopedia cattolica 3, 1178.

[4] Cfr. brieck, m., De vocis "catholica" origine et natura, in Ant 38/3-4 (1963) 264-265.

[5] Smirnesi 8,2, in quacquarelli, a. (ed.), I Padri apostolici, Coll. di testi patristici, Città nuova, Roma 1994, 136.

[6] Cfr. kelly, j.n.d., I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del credo, Dehoniane, Napoli 1987, cap. 2-6. Non è facile stabilire quale fu la prima professione di fede che incluse la nozione di cattolicità, perché manca sicurezza sulle le date di composizione. Si può ipotizzare la Traditio apostolica (inizio secolo III), alla quale risalgono le Constitutiones Ecclesiae Aegyptiacae, che menzionano la «santa Chiesa cattolica apostolica» (DH 3).

[7] COD 5 e 24.

[8] Cfr. congar, y., Proprietà essenziali della Chiesa, in feiner, j. - löhrer, m. (ed.), Mysterium Salutis, Vol. 7: L'evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1981, 452-583.

[9] Cfr. brieck, m., o.c., 266.

[10] congar, y., Chrétiens désunis. Principes d'un "oecuménisme" catholique, Coll. Unam Sanctam, 1, Cerf, Paris 1937, 161.

[11] Discorso 46, 18, in trapè, a. (ed.), Opere di sant’Agostino, Vol. 30: Discorsi, Città Nuova, Roma 1979, 821.

[12] Cfr. Documento Finale, II, 8, in People on the Move 35/93 (2003) 355.

[13] Cfr. congar, y., Proprietà essenziali della Chiesa, cit., 598. Ciò che l’autore dice in modo generico è applicabile al caso concreto degli zingari.

 

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