SECONDA SESSIONE DELLA
XVI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI (2-27 ottobre 2024)
PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE
INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Aula Paolo VI
Mercoledì, 2 ottobre 2024
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Cari fratelli e sorelle,
Da quando la Chiesa di Dio è stata “convocata in Sinodo”, nell’ottobre 2021, abbiamo percorso assieme una parte del lungo cammino al quale Dio Padre chiama da sempre il suo popolo, inviandolo tra tutte le genti a portare il lieto annuncio che Gesù Cristo è la nostra pace (Efesini 2,14) e confermandolo nella missione con il Santo Spirito.
Questa Assemblea, guidata dallo Spirito Santo, che “piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato”, dovrà offrire il suo contributo perché si realizzi una Chiesa sinodale in missione, che sappia uscire da sé stessa e abitare le periferie geografiche ed esistenziali avendo cura di stabilire legami con tutti in Cristo nostro Fratello e Signore.
C’è un testo di un autore spirituale del IV secolo [1] che potrebbe riassumere cosa avviene quando lo Spirito Santo è messo nella condizione di operare a partire dal Battesimo che genera tutti in eguale dignità. Le esperienze che descrive ci permettono di riconoscere quanto è avvenuto in questi tre anni, e quanto potrà ancora avvenire.
La riflessione di questo autore spirituale ci aiuta a comprendere che lo Spirito Santo è guida sicura, e nostro primo compito è imparare a distinguere la sua voce, perché Egli parla in tutti e in tutte le cose e questo processo sinodale ce ne ha fatto fare esperienza.
Lo Spirito Santo ci accompagna sempre. È consolazione nella tristezza e nel pianto, soprattutto quando– proprio per l’amore che nutriamo per l’umanità – di fronte alle cose che non vanno bene, alle ingiustizie che prevalgono, all’ostinazione con cui ci opponiamo a rispondere con il bene di fronte al male, alla fatica di perdonare, all’assenza di coraggio nel cercare la pace, siamo presi dallo sconforto, ci sembra che non ci sia più niente da fare e ci consegniamo alla disperazione. Così come la speranza è la virtù più umile ma più forte, la disperazione è il peggio, più forte.
Lo Spirito Santo asciuga le lacrime e consola perché comunica la speranza di Dio. Dio non si stanca, perché il Suo amore non si stanca.
Lo Spirito Santo penetra in quella parte di noi che spesso è tanto simile alle aule dei tribunali, dove mettiamo gli imputati alla sbarra e formuliamo i nostri giudizi, per lo più di condanna. Proprio questo autore, nella sua omelia, ci dice che lo Spirito Santo accende in quanti lo ricevono un fuoco, il «fuoco di tanta gioia e amore, che se fosse possibile prenderebbero nel loro cuore tutti, buoni e cattivi, senza distinzione alcuna». Questo perché Dio accoglie tutti, sempre, non dimentichiamo: tutti, tutti, tutti e sempre, e a tutti offre nuove possibilità di vita, fino all’ultimo momento. È per questo che noi dobbiamo perdonare tutti e sempre, consapevoli che la disposizione a perdonare nasce dell’esperienza di essere stati perdonati. Soltanto uno può non perdonare: colui che non è stato perdonato.
Ieri, durante la veglia penitenziale abbiamo fatto questa esperienza. Abbiamo chiesto perdono, abbiamo riconosciuto di essere peccatori. Abbiamo messo da parte l’orgoglio, ci siamo distaccati dalla presunzione di sentirci migliori degli altri. Siamo diventati più umili?
Anche l’umiltà è dono dello Spirito Santo: dobbiamo chiederlo. L’umiltà, come dice l’etimologia della parola, ci restituisce alla terra, all’humus, e ci ricorda l’origine, dove senza il soffio del Creatore saremmo rimasti fango senza vita. L’umiltà ci permette di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri. Come dice san Paolo: «Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,16). E non si può essere umili senza amore. I cristiani dovrebbero essere come quelle donne descritte da Dante Alighieri in un sonetto, donne che hanno il dolore nel cuore per la perdita del padre della loro amica Beatrice: «Voi che portate la sembianza umile, con gli occhi bassi, mostrando dolore» (Vita Nuova, XXII, 9). Questa è l’umiltà solidale e compassionevole, di chi si sente fratello e sorella di tutti, patendo lo stesso dolore, e riconoscendo nelle ferite e nelle piaghe di ognuno, le ferite e le piaghe di nostro Signore.
Vi invito a meditare in preghiera su questo bel testo spirituale e a riconoscere che la Chiesa - semper reformanda - non può camminare e rinnovarsi senza lo Spirito Santo e le sue sorprese; senza lasciarsi modellare dalle mani del Dio creatore, del Figlio, Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, come ci insegna Sant’Ireneo di Lione (Contro le eresie, IV, 20, 1).
Infatti, da quando, in principio, Dio trasse dalla terra l’uomo e la donna; da quando Dio chiamò Abramo a essere benedizione per tutti i popoli della terra e chiamò Mosè a condurre attraverso il deserto un popolo liberato dalla schiavitù; da quando la Vergine Maria accolse la Parola che la rese Madre del Figlio di Dio secondo la carne e Madre di ogni discepolo e di ogni discepola di suo Figlio; da quando il Signore Gesù, crocifisso e risorto, effuse il suo Santo Spirito nella Pentecoste: da allora siamo in cammino, come dei “misericordiati”, verso il pieno e definitivo compimento dell’amore del Padre. E non dimentichiamo quella parola: siamo misericordiati.
Conosciamo la bellezza e la fatica del cammino. Lo percorriamo assieme, come popolo che, anche in questo tempo, è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1). Lo percorriamo con e per ogni uomo e ogni donna di buona volontà, in ciascuno dei quali lavora invisibilmente la grazia (GS 22). Lo percorriamo convinti dell’essenza relazionale della Chiesa, vigilando affinché le relazioni che ci sono donate e che sono affidate alla nostra responsabilità e alla nostra creatività siano sempre manifestazione della gratuità della misericordia. Un sedicente cristiano che non entri nella gratuità e nella misericordia di Dio, è semplicemente un ateo travestito da cristiano. La misericordia di Dio ci fa affidabili e responsabili.
Sorelle, fratelli, percorriamo questo cammino sapendo di essere chiamati a riflettere la luce del nostro sole, che è Cristo, come pallida luna che assume fedelmente e gioiosamente la missione di essere per il mondo sacramento di quella luce, che non brilla da noi stessi.
La XVI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, giunta ora alla Seconda Sessione, sta rappresentando in modo originale questo “camminare insieme” del popolo di Dio.
L’ispirazione colta da Papa San Paolo VI, quando nel 1965 ha istituito il Sinodo dei Vescovi, si è rivelata assai feconda. Nei sessant’anni da allora trascorsi abbiamo imparato a riconoscere nel Sinodo dei Vescovi un soggetto plurale e sinfonico capace di sostenere il cammino e la missione della Chiesa cattolica, aiutando in modo efficace il Vescovo di Roma nel suo servizio alla comunione di tutte le Chiese e della Chiesa tutta.
San Paolo VI era ben consapevole che «questo Sinodo, come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato» (Apostolica Sollicitudo). La Costituzione apostolica Episcopalis communio ha inteso far tesoro dell’esperienza delle diverse Assemblee sinodali (ordinarie, straordinarie, speciali), configurando in modo esplicito l’Assemblea sinodale come processo e non solo come evento.
Il processo sinodale è anche un processo di apprendimento, nel corso del quale la Chiesa impara a conoscere meglio sé stessa e a individuare le forme di azione pastorale più adeguate alla missione che il suo Signore le affida. Questo processo di apprendimento coinvolge anche le forme di esercizio del ministero dei pastori, in particolare dei vescovi.
Quando ho deciso di convocare come membri a pieno titolo di questa XVI Assemblea anche un numero significativo di laici e consacrati (uomini e donne), diaconi e presbiteri, sviluppando quanto già in parte previsto per le precedenti Assemblee, l’ho fatto in coerenza con la comprensione dell’esercizio del ministero episcopale espressa dal Concilio Ecumenico Vaticano II: il Vescovo, principio e fondamento visibile di unità della Chiesa particolare, non può vivere il proprio servizio se non nel Popolo di Dio, con il Popolo di Dio, precedendo, stando in mezzo, e seguendo la porzione del Popolo di Dio che gli è stata affidata. Questa comprensione inclusiva del ministero episcopale chiede di essere manifestata e resa riconoscibile evitando due pericoli: il primo, l’astrattezza che dimentica la concretezza fertile dei luoghi e delle relazioni, e il valore di ogni persona; il secondo pericolo è quello di spezzare la comunione contrapponendo gerarchia a fedeli laici. Non si tratta certo di sostituire l’una con gli altri, eccitati dal grido: adesso tocca a noi! No, questo non va: “adesso tocca a noi laici”, “adesso tocca a noi preti”, no, non va questo. Ci è chiesto invece di esercitarci insieme in un’arte sinfonica, in una composizione che tutti accomuna nel servizio alla misericordia di Dio, secondo i differenti ministeri e carismi che il vescovo ha il compito di riconoscere e promuovere.
Camminare insieme, tutti, tutti, tutti è un processo nel quale la Chiesa, docile all’azione dello Spirito Santo, sensibile nell’intercettare i segni dei tempi (Gaudium et spes, 4), si rinnova continuamente e perfeziona la sua sacramentalità, per essere testimone credibile della missione a cui è chiamata, per radunare tutti i popoli della terra nell’unico popolo atteso alla fine, quando Dio stesso ci farà sedere al banchetto da Lui preparato (cfr Is 25,6-10).
La composizione di questa XVI Assemblea è quindi più che un fatto contingente. Essa esprime una modalità di esercizio del ministero episcopale coerente con la Tradizione viva delle Chiese e con l’insegnamento del Concilio Vaticano II: mai il Vescovo, come ogni altro cristiano, può pensarsi “senza l’altro”. Come nessuno si salva da solo, l’annuncio della salvezza ha bisogno di tutti, e che tutti siano ascoltati.
La presenza all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi di membri che non sono Vescovi non fa venir meno la dimensione “episcopale” dell’Assemblea. E questo lo dico per qualche tempesta di chiacchiericci che sono andati da una parte all’altra. Meno ancora pone qualche limite o deroga all’autorità propria del singolo Vescovo e del Collegio Episcopale. Essa piuttosto segnala la forma che è chiamato ad assumere l’esercizio dell’autorità episcopale in una Chiesa consapevole di essere costitutivamente relazionale e per questo sinodale. La relazione con Cristo e tra tutti in Cristo – quelli che ci sono e quelli che ancora non ci sono ma che sono attesi dal Padre - realizza la sostanza e modella in ogni tempo la forma della Chiesa.
Si devono individuare, in tempi adeguati, diverse forme di esercizio “collegiale” e “sinodale” del ministero episcopale (nelle Chiese particolari, nei raggruppamenti di Chiese, nella Chiesa tutta), sempre rispettando il deposito della fede e la Tradizione viva, sempre rispondendo a quello che lo Spirito chiede alle Chiese in questo tempo particolare e nei diversi contesti in cui esse vivono. E non dimentichiamo che lo Spirito è l’armonia. Pensiamo a quella mattina di Pentecoste: era un disordine tremendo, ma Lui faceva l’armonia, in quel disordine. Non dimentichiamo che Lui è proprio l’armonia: non è un’armonia sofisticata o intellettuale; è tutto, è un’armonia esistenziale.
È lo Spirito Santo a far sì che la Chiesa sia perennemente fedele al mandato del Signore Gesù Cristo e perennemente in ascolto della sua parola. Lo Spirito guida i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,13). Sta guidando anche noi, radunati nello Spirito Santo in questa Assemblea, per dare una risposta, dopo tre anni di cammino, alla domanda come essere Chiesa sinodale missionaria. Io aggiungerei misericordiosa.
Con il cuore pieno di speranza e di gratitudine, consapevole del compito impegnativo che vi è affidato (e che ci è affidato), auguro a tutti di aprirsi con disponibilità all’azione dello Spirito Santo, nostra guida sicura, nostra consolazione. Grazie.
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[1] Cfr Macario Alessandrino, Om. 18, 7-11: PG 34, 639-642.
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