VISITA ALLA PARROCCHIA DI SANTA MARIA DEL POPOLO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Domenica, 18 novembre 1984
1. “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 23).
Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia. Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa.
Oggi, nell’odierna liturgia, il Redentore ci parla con la parabola dei talenti, per mostrarci come chi aderisce a lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano.
Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”.
Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo.
Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini.
Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello.
2. Oggi mi è dato di visitare, in qualità di Vescovo di Roma, la parrocchia di Santa Maria del Popolo, la cui immagine materna con il Bambino Gesù benedicente invita alla preghiera ed è un segno di presenza e di amore.
Sono lieto di essere qui tra voi in questa basilica adorna di opere d’arte, che la rendono uno dei più prestigiosi monumenti rinascimentali di Roma, e desidero salutare tutti e ciascuno di cuore. Insieme col cardinale vicario e il vescovo ausiliare di zona, monsignor Filippo Giannini, saluto cordialmente il cardinale Thiandoum, titolare di questa insigne basilica, saluto il parroco padre Lucio Fabbroni, i viceparroci, suoi diretti collaboratori, e gli altri religiosi agostiniani, che con zelo aiutano a portare in fraterna unione la responsabilità pastorale di questa porzione della diocesi di Roma.
Un saluto vada anche ai religiosi e alle religiose che, presenti nell’ambito della parrocchia, operano con dedizione e generosità: i preti del Sacro Cuore di Betharram, le suore Figlie della misericordia, le suore Angeliche di san Paolo.
Voglio infine ricordare i membri del consiglio pastorale, i catechisti, i ministranti, tutti gli appartenenti ai vari gruppi parrocchiali, i lavoratori qui residenti: gli operai, gli impiegati, i professionisti, gli artisti; saluto i malati e le persone anziane. Saluto i giovani che, in proporzione, sono abbastanza numerosi, incoraggiando le iniziative che la parrocchia sta promuovendo a loro favore. A tutti assicuro il mio ricordo nella preghiera e a tutti rivolgo l’augurio a fare della parrocchia “una casa di famiglia, fraterna e accogliente, dove i battezzati e i cresimati prendono coscienza di essere popolo di Dio. Dove il pane della buona dottrina e il pane dell’Eucaristia sono spezzati a tutti in abbondanza nel contesto di un medesimo culto; dove i fedeli sono rinviati quotidianamente alla loro missione apostolica, in tutti i cantieri della vita del mondo” (Ioannis Pauli PP. II, Catechesi Tradendae, 67).
3. La parola di Dio nell’odierna celebrazione permette di approfondire la consapevolezza che la parrocchia è una comunità di fratelli e sorelle, che sono chiamati ad aderire a Cristo e ad esserne la trasparenza nei luoghi dove vivono e dove lavorano.
Questo implica che ognuno di voi, con le capacità che ha avuto da Dio, lavori su di sé per convertire ogni giorno il proprio cuore in un cammino religioso fatto con costanza e decisione, con volontà e generosità.
Ognuno di voi deve sentirsi impegnato a fissare la mente e il cuore in ciò che vale. Deve condurre una vita che non sia determinata dalla stima mondana, dal rispetto umano. E ciò sarà possibile se presterete efficace ascolto alla parola di Gesù, come sorgente di virtù cristiana, e obbedirete all’esortazione dell’apostolo Paolo: “Qualsiasi cosa facciate, o in parole o in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di lui” (Col 3, 17); in tal modo, come ci ricorda la seconda lettura della messa, certi della redenzione di Cristo “sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda, edificandovi gli uni gli altri come già fate” (1 Ts 5, 9-11).
Uno dei segni più grandi di mancanza di lavoro su di sé, di assenza di ascesi è la non accettazione della propria persona, caratterizzata da quei talenti che sono da accogliere, perché dati da quel Dio di misericordia, che ci ha creati, ci tiene in vita e ci aiuta a percorrere le strade dell’esistenza.
4. Frequentemente i doni che Dio pone nel nostro essere sono talenti difficili, ma non possono essere sprecati né per disistima, né per disobbedienza, né tantomeno perché sono faticosi. La croce per Cristo non fu motivo di obiezione alla volontà del Padre, ma la condizione, il talento supremo, con il quale “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale). Perciò io chiedo a tutti voi, e in particolare ai malati, ai sofferenti, ai portatori di handicap, di rendere fruttuoso, mediante la preghiera e l’offerta, il difficile talento, l’impegnativo talento ricevuto.
Tenete sempre presente che l’invocazione, le preghiere e la libera accettazione delle fatiche e delle pene della vita, vi permettono di raggiungere tutti gli uomini e di contribuire alla salvezza di tutto il mondo.
5. Questo lavoro su di sé, che porta frutto a tutti gli uomini, ha la sua radice nel Battesimo, il quale ha dato inizio in ciascuno di voi alla vita nuova, mediante il dono soprannaturale della grazia e la liberazione dal peccato originale. Con tale sacramento, che vi ha resi figli di Dio, avete ricevuto quelle “doti”, che costituiscono un’autentica ricchezza interiore della vita in Cristo.
Incorporati a Gesù, conformati a lui, siete chiamati come membra vive a contribuire con tutte le vostre forze e attitudini all’incremento della vostra parrocchia, che è la porta della Chiesa romana-universale.
I talenti ricevuti con il Battesimo sono pure una chiamata alla cooperazione con la grazia, che implica un dinamismo inerente alla vita cristiana e una crescita graduale e costante in quella maturità, che viene formata dalla fede, dalla speranza, dalla carità e dai doni dello Spirito Santo.
Tale collaborazione si compie soprattutto in quel centro di comunione che è la parrocchia, comunità di uomini e donne, che mettono le loro varie capacità a servizio della crescita personale e dei fratelli vicini e lontani.
La parrocchia è Chiesa: comunità di uomini che devono sviluppare in se stessi “i talenti del Battesimo”. Tutta la sua struttura, favorendo e garantendo un apostolato comunitario, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi e la carità, fonde insieme le molteplici differenze umane che vi si trovano e permette che ognuno, secondo le capacità che possiede, dia fraternamente il suo contributo a ogni iniziativa missionaria della sua famiglia ecclesiale (cf. Apostolicam Actuositatem, 10).
6. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato.
“Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25, 24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato.
Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno.
Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna.
7. Carissimi fratelli e sorelle, vi esorto ad unirvi con tutto il vostro spirito al sacrificio di Cristo, alla liturgia eucaristica, che rappresenta ogni volta la presenza del Salvatore nella vostra comunità.
Perseverate nell’essere e nel diventare sempre più un cuor solo e un’anima sola, per accogliere ogni giorno tra voi Cristo. Che egli entri in voi, e rimanga in voi, per portarvi la sua pienezza.
Che la Madre di Dio, Santa Maria del Popolo, introduca Gesù nella vostra comunità e l’aiuti a rimanere con il suo Figlio, per portare molto frutto.
Ecco la sintesi dell’insegnamento racchiuso nella parabola dei talenti, che insieme abbiamo ascoltato e meditato: per avere la pienezza della vita e portare frutto occorre, con appassionata vigilanza, compiere la volontà di Dio e rimanere in Cristo, con preghiera supplice e adorante.
Rimaniamo in lui! Rimaniamo in Gesù Cristo!
Rimaniamo mediante tutti i talenti della nostra anima e del nostro corpo!
Mediante i talenti della grazia santificante e operante!
Mediante tutti i talenti che comporta la partecipazione alla parola di Dio e ai sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia!
Rimaniamo!
Rimaniamo per dare molto frutto!
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