DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL PERSONALE DELL'OSPEDALE
"NUOVO REGINA MARGHERITA"
Roma, 20 dicembre 1981
Carissimi fratelli e sorelle!
1. Nel compiere la mia visita all’Ospedale “Regina Margherita”, desidero anzitutto porgere il mio cordiale, deferente saluto ai dirigenti, ai medici, al personale, alle suore, ed a quanti si trovano qui per questo incontro. A voi tutti, i sentimenti della mia stima e considerazione per l’insostituibile opera di autentica promozione umana e di ammirevole valore sociale, che compite nell’espletamento del vostro dovere, anzi della vostra missione.
Ma il mio pensiero particolarmente affettuoso non può non rivolgersi ai cari ospiti di questo Istituto, colpiti dalla malattia. A voi, che soffrite nel corpo e nello spirito, la mia benevolenza, la mia comprensione, la mia solidarietà, che intendo manifestare anche ai parenti, qui presenti, che con intensa emozione trepidano per la vostra salute.
Vengo in questo complesso ospedaliero, ristrutturato ed inaugurato nel 1970, ma che si collega, andando a ritroso nella storia dell’Urbe, con il Monastero di san Cosimato, fin dal secolo X centro di fervorosa vita religiosa ed altresì di generose iniziative caritative, specialmente a favore degli ammalati e dei pellegrini, e segno concreto di quella continua, fattiva, disinteressata sollecitudine che la Chiesa ha sempre dimostrato per i poveri, gli umili, i piccoli, gli infermi.
2. Questo Ospedale – come tutti gli ospedali del mondo – è un luogo di dolore e di speranza.
Entrando nelle corsie, nelle stanze, noi sperimentiamo in maniera drammatica la debolezza, la fragilità della nostra natura umana, così esposta a mille pericoli e insidie, che possono, ad ogni momento, spezzarne l’armonico equilibrio, provocando il morbo e debilitando le nostre forze. Il mistero del dolore fisico, che attanaglia lo spirito dell’uomo in uno degli interrogativi più lancinanti, appare qui con tutta la sua intensa forza d’urto. L’uomo sofferente sente acuirsi la propria solitudine, mentre le forze fisiche gli vengono a mancare; il bisogno di invocazione verso gli altri – parenti, amici, congiunti, medici che gli diano sollievo e conforto; il grido della supplica verso Dio, l’Unico che possa dare totale aiuto e spiegare altresì il significato di tanto dolore.
Ma questo luogo è anche un luogo di speranza: quella degli stessi infermi, i quali sentono insopprimibile la bellezza della vita; quella dei loro parenti e conoscenti, che dividono con essi la fiduciosa attesa di un miglioramento che preannunci la prossima guarigione.
Mentre esprimo il mio augurio di un pronto avverarsi di tale speranza, desidero dire ai fratelli ed alle sorelle, colpiti dall’infermità, che mi stanno ascoltando in questo momento: sono venuto per rendere testimonianza dell’amore che Cristo, la Chiesa, il Papa hanno per voi. La vostra presente sofferenza non è inutile, e tanto meno assurda. Cristo Signore, che con la nostra natura umana assunse nell’Incarnazione anche il dolore e la morte, chiama tutti gli uomini, ed in particolare voi, che siete nel dolore e nella debolezza, a collaborare con Lui per la salvezza del mondo. Questa vostra misteriosa vocazione alla sofferenza è una vocazione all’amore: verso Dio Padre di misericordia, e verso gli altri, verso i fratelli. Solo la Croce di Cristo può illuminare la nostra debole intelligenza e farle intravedere il significato profondo della umana e cristiana fecondità del dolore.
3. Luogo di sofferenza a cui si accompagna la speranza, l’ospedale è anche il luogo, in cui si lotta per far sì che tale speranza diventi quanto prima realtà. L’attività sanitaria tende per natura sua a difendere la vita e a promuovere la salute di qualunque essere umano in difficoltà. A ciò impegnava già il medico l’antichissimo “Giuramento di Ippocrate”, che in un suo passaggio centrale recitava: “Farò servire il regime dietetico a vantaggio dei malati secondo le mie capacità e il mio giudizio, non per il loro pericolo e per il loro male. E non darò una pozione omicida, né prenderò simile iniziativa, chiunque sia che me lo chieda; così non darò a nessuna donna un pessario abortivo”.
A distanza di 24 secoli, concetti sostanzialmente identici propone la “Dichiarazione di Ginevra”, approvata nel 1948 dall’Associazione Mondiale dei Medici. In essa colui che assume l’esercizio della professione sanitaria promette: “Mi impegno solennemente a consacrare la mia vita al servizio dell’umanità... Praticherò la mia professione con coscienza e dignità. La salute del mio paziente sarà la mia prima preoccupazione... Manterrò il massimo rispetto per la vita umana fin dal momento del concepimento”.
È proprio da questa dedizione senza riserve alla difesa della salute e della vita umana che trae origine la particolare considerazione, universalmente tributata dai cittadini ai medici e al personale ausiliario: pur nel rispetto di ogni altro lavoro, ciascuno riconosce volentieri la preminenza sociale di una professione che ha per scopo la tutela di un bene, che è fondamento e presupposto di ogni altro bene fruibile quaggiù.
Ed è la stessa Sacra Scrittura a confermare tale apprezzamento, raccomandando: “Onora il medico come si deve secondo il bisogno” (Sir 38,1); ed essa a commento di tale precetto, osserva: “La coscienza del medico lo fa procedere a testa alta, egli è ammirato anche tra i grandi” (Sir 38,3).
Certo, per il credente la prima e principale sorgente di speranza, in caso di malattia, resta l’aiuto del Signore, la cui onnipotenza può aver ragione di qualsiasi infermità. Per questo la pagina biblica citata invita il malato a pregare, a purificarsi, ad offrire sacrifici propiziatori (cf. Sir 38,9-11). Ciò non esclude, tuttavia, l’opportunità del contemporaneo ricorso ai sussidi dell’arte medica, la cui benefica funzione è pure prevista nei piani della Provvidenza divina. Per questo, dopo le ammonizioni ora ricordate, la Scrittura non manca di raccomandare: “Fa’ poi passare il medico – il Signore ha creato anche lui – non stia lontano da te, poiché ne hai bisogno” (Sir 38,12).
4. È giusto, pertanto, che si abbia in grande considerazione la vostra professione, diletti medici e membri del personale paramedico ed ausiliario. È giusto, perché altamente prezioso è il bene che essa intende tutelare: il bene della vita umana.
La vita è il tempo che ci è concesso per tradurre in atto le potenziali ricchezze di cui ciascuno di noi è portatore e per recare il nostro contributo al comune progresso dell’umanità. La vita è il tempo che ci è dato per incarnare in noi e nella storia i valori di amore, di bontà, di gioia, di giustizia, di pace, a cui il cuore umano aspira.
Alla luce della fede, poi, la vita è il tempo di grazia (il “kairos”), in cui Dio mette alla prova l’essere umano, saggiandone il cuore e la mente, mediante il quotidiano impegno di credere, di sperare e di amare. Tempo di grazia, in cui ciascuno è chiamato ad arricchirsi – donandosi – di valori durevoli per l’eternità, che sarà segnata per sempre dalla misura di amore, che saremo riusciti ad esprimere quaggiù.
Bene prezioso, dunque, è la vita, nel suo insieme ed in ogni suo frammento. Chi spende le proprie energie per difenderla, per ripristinarne la normale efficienza, per promuoverne il pieno sviluppo, acquista il diritto alla riconoscenza di ogni suo simile. Al contrario, si macchia di grave crimine ed incorre nella severa condanna di quel giudice inappellabile, che è la coscienza specchio di Dio, chi osa in qualunque modo attentarvi.
L’auspicio che mi è spontaneo esprimere in occasione di questo incontro tanto significativo è che, anche oggi, chiunque sceglie di porsi al servizio della vita umana, senta vibrare in sé la fierezza di far parte di una categoria, i cui componenti, nel corso dei secoli, hanno offerto luminose testimonianze di generoso altruismo, spingendosi in alcuni casi fino all’eroismo supremo del sacrificio di sé per salvare il fratello.
Il pensiero del Natale, che ci apprestiamo a celebrare, avvalori questi voti col fascino che si sprigiona dal sorriso di un Bambino neonato fra le braccia della Madre. La scena suggestiva, che contempleremo raffigurata nel presepe, parla a tutti noi di una vita appena sbocciata, che il calore e la sollecitudine di cuori pieni di amore (Maria, Giuseppe, i pastori) difendono dalle strettezze di una situazione difficile.
Possa tale messaggio suscitare echi di generosa corrispondenza nei cuori dei cristiani di oggi, così che ogni vita umana trovi intorno a sé, non indifferenza o rifiuto, ma simpatia, accoglienza, interessamento ed aiuto. È questo il mio augurio cordiale, che accompagno con l’apostolica benedizione, propiziatrice di tanta serenità per voi e per i vostri cari.
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