DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA SCOMPARSA DI BECHIR GEMAYEL,
PRESIDENTE DEL LIBANO
Mercoledì, 15 settembre 1982
Fratelli e sorelle.
Sono profondamente addolorato per la morte di Bechir Gemayel, Presidente eletto del Libano, provocata ieri da un disumano attentato che ha causato decine di morti e feriti.
Mi associo con spirito di intensa preghiera alla pena della famiglia del Presidente, delle famiglie delle altre vittime, e al lutto del Libano, che alle tragedie di questi ultimi anni vede aggiungersene un’altra, non meno grave, nella persona di chi era stato designato a reggerne le sorti.
La mia riprovazione per un gesto di tale efferatezza è totale; compiango la vita barbaramente troncata di un uomo giovane e prestigioso e dei suoi collaboratori; e mi rattrista, come Capo della Cattolicità, la perdita di un figlio della Comunità Maronita. Il Nunzio Apostolico a Beirut mi ha informato che in un incontro avuto ieri con lui, poche ore prima dell’attentato, il Presidente Gemayel aveva tenuto a confermare al Rappresentante del Papa di sentirsi “un figlio devoto della Chiesa”.
Non posso nascondere inoltre la preoccupazione per le conseguenze che il drammatico evento potrebbe avere per il Libano stesso e per la tormentata regione del Medio Oriente.
Desidero qui rivolgermi a tutti i Libanesi, cristiani e non-cristiani, ed esortarli, con paterna sollecitudine ed affetto, a trarre motivo da questa tragica circostanza per rafforzare i loro legami, unirsi per il bene della patria e non consentire assolutamente che si producano reazioni di violenza o divisioni.
Il Libano ha bisogno di recuperare serenità e pace e la sovranità su tutto il suo territorio, nel rispetto dell’autorità legale; a questo fine il Paese necessita della collaborazione leale ed efficace di tutte le sue componenti etniche e religiose.
In queste settimane, concluso il tragico assedio di Beirut, si registra un intenso lavorio diplomatico con un affiorare di proposte per rilanciare il negoziato ed aprire la strada ad una soluzione globale del conflitto del Medio Oriente.
La Santa Sede segue con attentissimo interesse queste iniziative ed apprezza ogni sforzo che si fa per favorire il dialogo, la trattativa, e pervenire, finalmente, ad una composizione del conflitto.
Essa vuole contribuirvi con i mezzi che sono conformi alla sua natura e missione, sul piano dei principi morali, raffrontando ad essi le realtà concrete, per indicare le esigenze che a suo parere dovrebbero essere presenti nella ricerca delle soluzioni pacifiche.
La Santa Sede è convinta anzitutto che non potrà esserci vera pace senza giustizia; e che non ci sarà giustizia se non saranno riconosciuti ed accolti, in modo stabile, adeguato ed equo, i diritti di tutti i popoli interessati.
Tra questi diritti, primordiale ed imprescindibile è quello dell’esistenza e della sicurezza su un proprio territorio, nella salvaguardia della identità propria di ciascuno.
È un dilemma che si dibatte in forma aspra tra due popoli, l’Israeliano e il Palestinese, i quali hanno visto simultaneamente, o alternativamente, oppugnati o negati tali loro diritti.
Il Papa, la Chiesa Cattolica guardano con simpatia e considerazione a tutti e due i popoli, eredi e custodi di tradizioni religiose, storiche e culturali diverse, ma ambedue ricche di valori parimenti rispettabili.
Qualche mese fa, all’Angelus di domenica 4 aprile scorso, ho osato porre questo interrogativo preciso: “È irreale, dopo tante delusioni, auspicare che un giorno questi due popoli, ognuno accettando l’esistenza e la realtà dell’altro, trovino la via di un dialogo che li faccia approdare ad una soluzione equa, in cui ambedue vivano in pace, in propria dignità e libertà, mutuamente dandosi il pegno della tolleranza e della riconciliazione?”. Oggi rilancio con più forza la domanda, e anche con la fiducia che la dolorosa esperienza vissuta in questi mesi possa affrettare la risposta affermativa delle parti, incoraggiate e sostenute dalla solidarietà e collaborazione dei Paesi amici di entrambe, e abbandonando ogni ricorso alla guerra, alla violenza e a tutte le forme di lotta armata, alcune delle quali sono state in passato particolarmente spietate e disumane.
Al culmine di questo faticoso cammino di pace, per la riconciliazione e l’incontro tra popoli diversi, vedo idealmente levarsi come un faro luminoso che invita alla comprensione e all’amore, la Città Santa di Gerusalemme.
È la Città di Dio, che egli ha fatto oggetto delle sue compiacenze e dove ha rivelato i grandi misteri del suo amore per l’uomo. Gerusalemme può divenire anche la città dell’uomo, nella quale i credenti delle tre grandi religioni monoteistiche - il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam - vivano in piena libertà e parità con i seguaci delle altre comunità religiose, nella riconosciuta garanzia che la Città è patrimonio sacro di tutti per attendere alle attività che nobilitano l’uomo: l’adorazione del Dio Unico, la meditazione, le opere di fraternità.
Prego il Signore, e vi invito a farlo con me, affinché per tutto il Medio Oriente, e specialmente per Gerusalemme, per la Terra Santa e per il Libano, si avverino presto questi aneliti ed auspici di pace.
Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana