ENCICLICA
DEL SOMMO PONTEFICE
LEONE XII
UBI PRIMUM
Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.
Il Papa Leone XII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Non appena fummo innalzati all’alta dignità del Pontificato, cominciammo subito ad esclamare con San Leone Magno: «Signore, udii la tua voce ed ebbi paura; considerai l’opera tua, e fui colto da spavento. Che cosa, infatti, vi può essere di più straordinario e di più temibile del lavoro per chi è debole, dell’innalzamento per chi si trova in basso, della dignità per chi non la merita? Ciò nonostante, non ci disperiamo, né ci scoraggiamo, perché non presumiamo di noi stessi, ma di Colui che opera in noi» [S. Leone M., Serm. 3, «De natali ipsius habit. in anniv. assumpt. suae ad summi Pontificii munus»]. Così, per modestia, parlava quel Pontefice non mai abbastanza lodato; Noi, in omaggio alla verità, diciamo ciò e lo confermiamo.
Anche Noi, Venerabili Fratelli, volevamo ardentemente parlare con voi al più presto, e aprire il Nostro cuore con voi che siete la Nostra corona e la Nostra gioia; così come Noi confidiamo che voi troviate la vostra gioia e la vostra corona nel gregge che vi è affidato. Sennonché, in parte altri importanti lavori della Nostra missione apostolica, in parte specialmente i dolori di una lunga malattia, Ci hanno impedito fin qui, con Nostro dispiacere e rammarico, di soddisfare i Nostri desideri. Ma Dio, largo nella misericordia e abbondantemente munifico nei confronti dei supplicanti e di chi prega con fiducia, Dio, che Ci ha ispirato questo proposito, Ci concede oggi di recarlo ad effetto. Tuttavia il silenzio che forzatamente abbiamo tenuto fino a oggi non è stato del tutto privo di conforto. Colui che consola gli umili Ci ha consolato con l’affetto religioso della vostra devozione e del vostro zelo per Noi: in tali sentimenti riconosciamo bene la pietà dell’unità cristiana, tanto che sempre di più ne gioivamo e ringraziavamo Dio. E così, quale testimonianza del Nostro affetto, vi inviamo questa lettera per spronarvi maggiormente a proseguire sulla via dei comandamenti divini e a combattere con maggior vigore le battaglie del Signore. Con ciò avverrà che dalla vittoria del gregge del Signore si glorifichi lo zelo del pastore.
Voi non ignorate, Venerabili Fratelli, ciò che l’Apostolo Pietro insegnò ai Vescovi con queste parole: «Pascete con previdenza il gregge di Dio che è in Voi, non per forza, ma spontaneamente, secondo il volere di Dio; non per la speranza di un guadagno vergognoso, ma volontariamente; non come dominatori del clero, ma divenuti col cuore forma del gregge» [Epistola 1, cap. 5].
Da queste parole chiaramente voi comprendete quale sia il genere di condotta che vi è proposto, di quali virtù dobbiate sempre più arricchire il vostro cuore, di quale scienza abbondante ornare il vostro spirito, e quali frutti di pietà e di affetto dobbiate non solo produrre, ma partecipare al vostro gregge. In tal modo voi raggiungerete lo scopo del vostro ministero, poiché, divenuti nell’animo forma del vostro gregge, e dando agli uni il latte, agli altri più solido cibo, non solo informerete lo stesso gregge di dottrina, ma anche lo condurrete con l’opera e con l’esempio ad una tranquilla vita in Gesù Cristo e al conseguimento dell’eterna beatitudine insieme a voi, così come si esprime lo stesso capo degli Apostoli: «E quando apparirà il principe dei pastori, voi otterrete una imperitura corona di gloria».
Noi vorremmo veramente ricordarvi tante considerazioni, ma ne toccheremo soltanto alcune, dovendoci soffermare più estesamente sugli argomenti di maggiore importanza, come richiede la necessità di questi infelici tempi.
Così, scrivendo a Timoteo, l’Apostolo Ci ha insegnato con quale saggia precauzione e con quale serio esame bisogna conferire gli ordini minori, e soprattutto quelli sacri: «Non affrettarti a imporre troppo presto le mani a chicchessia» [Epistola 1, cap. 5].
Quanto alla scelta dei pastori che nelle vostre Diocesi debbono essere preposti alla cura delle anime, e per quanto riguarda i seminari, il Concilio Tridentino ha dato regole precise [Sess. 23, cap. 18], in seguito maggiormente chiarite dai Nostri Predecessori: tutto ciò vi è talmente noto, che non occorre soffermarvisi più a lungo.
Voi ben sapete ancora, Venerabili Fratelli, quanto importi che costantemente e personalmente risiediate nelle vostre Diocesi; questo è un obbligo che avete contratto accettando il vostro ministero, come è dichiarato da parecchi decreti dei Concilii e dalle Costituzioni apostoliche, confermate in questi termini dal santo Concilio di Trento: «Poiché per divino precetto è stato comandato a tutti coloro ai quali è affidata la cura delle anime di conoscere le loro pecorelle, di offrire per esse il santo Sacrificio, di pascerle con la predicazione della parola divina, con l’amministrazione dei Sacramenti e con l’esempio di ogni buona opera, di avere una sollecitudine paterna per i poveri e per tutte le altre persone che sono nell’afflizione, e di provvedere a tutti gli altri doveri pastorali, che non possono certo essere prestati ed adempiuti da coloro che non vigilano il proprio gregge, né lo assistono, ma lo abbandonano come fanno i mercenari, il santo Sinodo li esorta e li ammonisce affinché, memori dei divini precetti, e fattisi veramente forma del loro gregge, lo nutrano e lo guidino nella giustizia e nella verità» [Sess. 23, De Reform., cap. 1]. Anche Noi, colpiti dall’obbligo di un dovere tanto grande e tanto grave, pieni di zelo per la gloria di Dio, lodiamo di cuore coloro che osservano con scrupolo questo precetto. Se alcuni non obbediscono compiutamente a questo obbligo (in un numero così grande di pastori ve ne possono essere alcuni: la cosa può non sorprendere, quantunque sia dolorosa), per le viscere della misericordia di Gesù Cristo li ammoniamo, esortiamo e supplichiamo affinché pensino seriamente che il giudice supremo cercherà il sangue delle sue pecorelle nelle loro mani ed emetterà un giudizio durissimo nei confronti di coloro che sono preposti ad esse.
Questa terribile sentenza, come senza dubbio sapete, non colpisce soltanto coloro che trascurano personalmente la residenza, o tentano di sottrarvisi con qualche vano pretesto, ma anche coloro che rifiutano senza valido motivo di sobbarcarsi l’incarico della visita pastorale e di eseguirla secondo le prescrizioni canoniche. Non saranno mai ossequienti al decreto Tridentino se non si preoccuperanno di avvicinarsi personalmente alle pecorelle e, come fa il buon pastore, di nutrire quelle buone, di ricercare quelle disperse e, finalmente richiamandole ed operando ora dolcemente, ora con la forza, di condurle all’ovile.
In verità, i Vescovi che non obbediscono agli obblighi della residenza e della visita pastorale con la dovuta sollecitudine non sfuggiranno al tremendo giudizio del supremo Pastore nostro salvatore, adducendo come giustificazione che hanno adempiuto a questi doveri per mezzo di appositi ministri.
A loro, infatti, non ai ministri, è affidata la cura del gregge; a loro furono promessi i doni carismatici. Dal che deriva che le pecorelle odono molto più volentieri la voce del loro pastore piuttosto che quella di un sostituto, e che prendano con più fiducia e ricevano con più lieto animo il cibo salutare dalla mano del primo piuttosto che del secondo, come dalla mano di Dio, l’immagine del quale riconoscono nel loro Vescovo. Tutto ciò, oltre a quanto detto fin qui, è confermato abbondantemente dalla stessa esperienza, che è maestra delle cose.
Sarebbe di per sé sufficiente l’avervi scritto quanto sopra, Venerabili Fratelli: a voi, dico, che non siete ingrati tacendo dei doni, né superbi presumendo dei meriti [S. Leone M., Serm. 5, De nat. ipsius] . Tali, senza dubbio, conviene che siano coloro che vogliono passare di virtù in virtù, e progredire con animo ardente, e che, emulando gli esempi degli antichi e recenti santi Vescovi, si gloriano di aver sconfitto i nemici della Chiesa e di aver riformato in Dio i costumi corrotti. Alla vostra mente sia sempre presente l’aurea sentenza di San Leone Magno: «In questa battaglia non si ottiene mai una vittoria tanto felice che non sorga, dopo il trionfo, anche la necessità di sostenere nuovi combattimenti» [S. Leone M., Serm. 5, De nat. ipsius].
Quante battaglie, in verità, e quanto crudeli si sono accese in questo nostro tempo, e quasi ogni giorno si manifestano contro la Religione Cattolica! Chi, ricordandole e meditandole, può trattenere le lacrime?
Fate attenzione, Venerabili Fratelli, «Non è la piccola scintilla» di cui parla San Girolamo [In epist. ad Galat., lib. 3, cap. 5]; non è – dico io – la piccola scintilla che a malapena si vede quando si guarda, ma una fiamma che cerca di divorare tutta la terra, di distruggere le mura, le città, le foreste più vaste e tutte le contrade; è un lievito che unito alla farina tenta di corrompere tutta la massa. In questa allarmante situazione il servizio del nostro apostolato sarebbe del tutto insufficiente se non vegliasse di continuo Colui che custodisce Israele e che dice ai suoi discepoli: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli»; se Egli non si degnasse di essere non solo custode delle pecore, ma anche pastore degli stessi pastori [S. Leone M., cit., Serm. 5].
Ma, che significa tutto ciò? Esiste una setta, a voi certamente nota, la quale, arrogandosi a torto l’appellativo di filosofica, ha riesumato dalle ceneri disperse falangi di quasi tutti gli errori. Questa setta, presentandosi sotto la carezzevole apparenza della pietà e della liberalità, professa il tollerantismo (così lo chiama), o indifferentismo, e lo estende non solo agli affari civili, sulla qual cosa non esprimiamo parola alcuna, ma anche alla materia religiosa, insegnando che Dio ha dato a tutti gli uomini un’ampia libertà, in modo che ognuno, senza alcun pericolo, può abbracciare e professare la setta e l’opinione che preferisce, secondo il proprio personale giudizio. Contro tale empietà di uomini deliranti, l’Apostolo Paolo ci mette in guardia: «Io vi esorto, fratelli, a controllare coloro che alimentano divisioni e scandali contro la dottrina che avete appresa, e ad allontanarvi da loro. In questo modo, essi non servono nostro Signore Gesù Cristo, ma il proprio ventre, e attraverso dolci parole e benedizioni seducono le anime semplici» (Rm 16,17-18).
È vero che tale errore non è nuovo, ma in questi tempi esso infierisce contro la stabilità e l’integrità della fede cattolica. Infatti Eusebio [Hist. eccl., lib. 5], citando Rodone, riferisce che questa follia era già stata propagata da certo Apelle, eretico del secondo secolo, il quale asseriva che non occorreva approfondire la fede, ma che ciascuno doveva arroccarsi nell’opinione che si era formata. Apelle sosteneva che coloro i quali avevano riposto la propria speranza nel Crocifisso si sarebbero salvati, purché la morte li avesse raggiunti nel corso di buone opere. Anche Retorio, come attesta Agostino [De haeresibus, n. 72], blaterava che tutti gli eretici camminavano nella retta via e predicavano delle verità. «Ma ciò è così assurdo, osserva il santo Padre, che mi sembra incredibile». In seguito, questo indifferentismo si è talmente diffuso e accresciuto, che i suoi seguaci riconoscono non solo tutte le sette che, fuori della Chiesa cattolica, ammettono oralmente la rivelazione come base e fondamento, ma affermano spudoratamente che sono nella retta via anche quelle società che, respingendo la divina rivelazione, professano il semplice deismo ed anche il semplice naturalismo. L’indifferentismo di Retorio fu giudicato da Sant’Agostino cosa assurda in diritto e nel merito, anche se veniva circoscritto in determinati limiti. Ma una tolleranza che si estenda fino al deismo ed al naturalismo – teorie che furono respinte perfino dagli antichi eretici – potrebbe mai essere ammessa da una persona che usi la ragione? Tuttavia (Oh tempi! Oh filosofia menzognera!) una siffatta pseudo-filosofia è approvata, difesa e sostenuta.
Per la verità, non sono mancati qualificati scrittori che, professando la vera filosofia, aggredirono questo mostro e abbatterono certe opere con invincibili argomenti. Ma evidentemente è impossibile che Dio, sommamente vero, Egli stesso Verità suprema, Provvidenza ottima e sapientissima, Remuneratore delle buone opere, possa approvare tutte le sette che predicano falsi principii – spesso in contraddizione fra di loro –, e che possa assicurare il premio eterno a chi le professa; del pari è superfluo fare altre considerazioni in materia. Noi disponiamo infatti di profezie ben più sicure e, scrivendo a voi, Noi parliamo di sapienza fra dotti: non della sapienza di questo secolo, ma della sapienza del mistero divino, nella quale siamo appunto istruiti; per fede divina crediamo che c’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo e che nessun altro nome è stato dato agli uomini sulla terra per operare la loro salvezza se non quello di Gesù Cristo di Nazaret: pertanto dichiariamo che fuori della Chiesa non esiste salvezza.
Per la verità, oh, smisurata ricchezza della sapienza e della scienza di Dio! Oh, incomprensibile pensiero di Lui! Dio, che annienta la sapienza dei sapienti (cf. 1Cor 1,18), sembra aver consegnato i nemici della sua Chiesa e i detrattori della Rivelazione soprannaturale a quel senso reprobo (Rm 1,28) e a quel mistero d’iniquità che era scritto sulla fronte dell’impudente donna di cui parla Giovanni (Ap 1,5). Infatti, quale maggiore iniquità di questi orgogliosi, che non solo si staccano dalla vera religione, ma con ogni genere di cavilli, con parole e scritti pieni di sofismi vogliono anche irretire i semplici? Sorga Dio, e impedisca, sconfigga ed annienti questa sfrenata licenza di parlare, di scrivere e di diffondere tali scritti.
Che dirò ora di più? L’iniquità dei nostri nemici si accresce talmente che, oltre alla colluvie dei libri perniciosi e contrari alla fede, giungono al punto di volgere a danno della Religione quelle sacre scritture che dall’alto ci sono state concesse per l’edificazione della Religione stessa.
Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, che una società volgarmente chiamata Biblica si estende ora audacemente su tutta la terra, e che, a dispetto delle tradizioni dei Santi Padri e contro il notissimo decreto del Concilio Tridentino [Sess. 4, De edit. et usu sacrorum librorum], s’impegna con tutte le sue forze e con tutti i mezzi di cui può disporre a tradurre, o per meglio dire a corrompere la sacra Bibbia, volgendola nel volgare di tutte le nazioni. Da ciò deriva un fondato motivo di temere che, come in alcune traduzioni già note, così per altre si debba dire, quale conseguenza di un’interpretazione perversa, che invece del Vangelo di Cristo si trovi il vangelo dell’uomo o, peggio ancora, il vangelo del demonio [S. Hier. in cap. 1, Epist. ad Galat.].
Per allontanare tale flagello, parecchi nostri predecessori pubblicarono delle Costituzioni, e negli ultimi tempi Pio VII, di santa memoria, ha inviato due Brevi, uno ad Ignazio, Arcivescovo di Gnesna, e l’altro a Stanislao, Arcivescovo di Mohilow. In essi si trovano molte testimonianze, accuratamente e sapientemente ricavate dalle divine scritture e dalla tradizione: esse ci mostrano quanto questa sottile invenzione possa nuocere alla fede e alla morale.
Noi pure, Venerabili Fratelli, in forza del Nostro impegno, vi esortiamo a tener lontano con cura il vostro gregge da questi mortali pascoli. Fate conoscere, pregate, insistete a proposito e a sproposito, con pazienza e dottrina, affinché i vostri fedeli, richiamandosi scrupolosamente alle regole della nostra Congregazione dell’Indice, si persuadano che «se si lascia tradurre la Bibbia nella lingua volgare senza permesso, ne risulterà, causa la temerarietà degli uomini, più male che bene».
L’esperienza dimostra la verità dell’assunto. Sant’Agostino, oltre ad altri Padri, ne dà conferma con queste parole: «Le eresie e certi dogmi perversi che avviluppano le anime e le precipitano nell’abisso nascono in coloro che non comprendono bene le sacre scritture: dopo averle mal capite, sostengono l’errore con temerarietà e arroganza» [Tract. 18 in Joannis, cap. 5].
Ecco, o Venerabili Fratelli, dove è indirizzata questa società, che nulla lascia d’intentato affinché si realizzi l’affermazione dell’empio proposito. Infatti, essa si compiace non solo di stampare le proprie versioni, ma, percorrendo tutte le città, di diffonderle fra la gente. Inoltre, per sedurre le anime dei semplici, talvolta si preoccupa di venderle, talaltra, con perfida liberalità, le distribuisce gratuitamente.
Che, se qualcuno vuole cercare la vera origine di tutti i mali che fin qui abbiamo deplorato, e di altri che per motivi di brevità abbiamo omesso, si convincerà senza dubbio che sia nei primordi della Chiesa, come ora, essa va ricercata nell’ostinato disprezzo dell’autorità della Chiesa: di quella Chiesa che, come insegna San Leone Magno [S. Leone M., Serm. 2 «De nat. eiusd.»], «per volontà della Provvidenza riconosce Pietro nella Sede Apostolica, e nella persona del Romano Pontefice vede ed onora il suo successore: colui nel quale risiedono la cura di tutti i pastori e la tutela delle pecore loro affidate, e la dignità del quale non viene meno anche se si tratta di un indegno erede» [S. Leone M., Serm. 3 «super, eodem»].
«In Pietro, dunque (come afferma in proposito il predetto santo Dottore) la forza di tutti si consolida, e l’aiuto della grazia divina s’indirizza a che la fermezza concessa a Pietro nel nome di Cristo, attraverso Pietro sia trasmessa agli Apostoli».
È evidente, poi, che questo disprezzo dell’autorità della Chiesa si oppone al comando di Cristo che s’indirizza agli Apostoli, e nelle loro persone ai ministri della Chiesa loro successori: «Chi ascolta voi ascolta me; chi disprezza voi disprezza me» (Lc 10,16). Questo disprezzo si oppone alle parole dell’Apostolo Paolo: «La Chiesa è la colonna e la base della verità» (1Tm 3,15). Agostino, meditando tali indicazioni, disse: «Se qualcuno verrà trovato fuori della Chiesa, sarà escluso dal numero dei suoi figli; né avrà Dio come padre colui che non avrà voluto avere la Chiesa come madre» [De Symb. ad Catech., lib 4, cap. 13].
Voi dunque, Venerabili Fratelli, tenete presenti con Agostino, e meditate frequentemente, le parole di Cristo e dell’Apostolo Paolo, in modo che possiate insegnare al popolo a voi affidato quanto sia da rispettare l’autorità della Chiesa voluta direttamente da Dio stesso. Ma voi, Venerabili Fratelli, non perdetevi d’animo. Da ogni parte, lo dichiariamo ancora con Sant’Agostino [Enarrat. in psalm., 2, 31], mugghiano attorno a noi le acque del diluvio (cioè la molteplicità delle diverse dottrine). Non ci troviamo immersi nel diluvio, ma ne siamo circondati: le sue acque c’incalzano, ma non ci toccano; c’inseguono, ma non ci sommergono.
Pertanto, vi esortiamo nuovamente a non perdervi d’animo. Voi avrete per voi – e Noi certamente confidiamo nel Signore – l’aiuto dei principi terreni, i quali, come lo provano la ragione e la storia, difendendo la propria causa difendono l’autorità della Chiesa. Infatti, non sarà mai possibile che si dia a Cesare ciò che è di Cesare, se non si dà a Dio ciò che è di Dio. Inoltre, per usare le parole di San Leone, i buoni uffici del Nostro ministero saranno per voi tutti. Nelle traversie, nei dubbi, in ogni vostra necessità, ricorrete a questa Sede Apostolica. «Dio, come dice Sant’Agostino [Epist. 103 ad Donatist., Alias 166], pose la dottrina della verità sulla cattedra dell’unità».
Infine, Noi vi scongiuriamo per la misericordia del Signore. Aiutateci con i vostri voti e con le preghiere rivolte a Dio affinché lo Spirito della grazia si mantenga in Noi e i vostri giudizi non abbiano incertezze: Colui che vi ha ispirato il piacere dell’unanimità solleciti il dono della pace in comune con Noi, affinché in tutti i giorni della Nostra vita trascorsi al servizio di Dio onnipotente, pronti a prestarvi il nostro appoggio, possiamo con fiducia innalzare al Signore questa preghiera: «Padre santo, conserva nel tuo nome coloro che tu mi hai affidato» [S. LEONE M. , Serm. 1, «De nat. ipsius»; et Joann. Evang., cap. 17]. Quale pegno della Nostra fiducia e del Nostro amore impartiamo di tutto cuore l’Apostolica Benedizione a voi e al vostro gregge.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 5 maggio 1824, anno primo del Nostro Pontificato.
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