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BREVE
QUUM MEMORANDA
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO VII

 

Il Papa Pio VII. A perpetua memoria.

Quando, nella memorabile giornata del 2 febbraio, le truppe francesi – dopo aver invaso le altre più ricche province pontificie – con un attacco improvviso invasero anche la Capitale, non Ci fu possibile accettare che le motivazioni fossero soltanto quelle politiche e militari che gli assalitori cercavano di accreditare fra la gente: cioè che essi volessero evitare che i loro nemici potessero introdursi attraverso i territori di Santa Romana Chiesa o che volessero vendicare la determinazione e la costanza con le quali avevamo rifiutato tutto ciò che Ci era stato richiesto dal Governo Francese. Ci accorgemmo subito che la cosa andava ben al di là di un provvedimento militare o temporaneo, o di una semplice dimostrazione di risentimento nei Nostri confronti. Vedemmo rivivere e riprodursi, come se prorompessero di nuovo da dove erano stati schiacciati – e se non azzerati almeno compressi – gli empii ed astutissimi consigli di quegli uomini che, ingannati ed ingannatori ad un tempo, tramite filosofia e fallaci ragionamenti (Col 2,8) avviandosi verso i principii della perdizione (2Pt 2,1) da tempo si davano da fare per completare un disegno mirante a distruggere la santissima Religione. Vedemmo assediare ed aggredire nella Nostra umilissima persona questa stessa Santa Sede del beatissimo Principe degli Apostoli: Sede che, se in qualche modo potesse essere distrutta, comporterebbe inevitabilmente il crollo e la rovina della Chiesa Cattolica, che ivi fu dal suo Divino Fondatore edificata su solidissima pietra.

In passato abbiamo ritenuto e sperato che il Governo Francese, edotto dall’esperienza dei mali in cui si era trovata coinvolta la potentissima nazione per aver allentato i freni all’empietà e allo scisma, stimolato dal voto unanime della larghissima maggioranza dei cittadini si fosse alla fine radicalmente convinto che sarebbe stato di giovamento alla propria sicurezza ed alla serenità collettiva favorire la libera pratica della Religione Cattolica. Mossi dunque da tale convinzione e da tale speranza, Noi che, per quanto immeritamente, facciamo le veci in terra di Colui che è Dio di pace, non appena abbiamo percepito che in Francia s’apriva uno spiraglio per riparare le offese subite dalla Chiesa, Ci è testimone tutto il mondo con quanta alacrità abbiamo iniziato le trattative di pace e quanto sia costato, a Noi ed alla stessa Chiesa, farle approdare finalmente al miglior esito possibile. Ma, Dio immortale! Dove mai andarono a finire le Nostre speranze! Quale mai frutto nacque da tanta indulgenza e dalla Nostra generosità?

Dal momento stesso della promulgazione di una pace di tal fatta Ci toccò esclamare col profeta: «Ecco in pace la mia amarissima amarezza». Quest’amarezza non venne dissimulata alla Chiesa, ed agli stessi Nostri Fratelli i Cardinali di Santa Romana Chiesa, nell’allocuzione che rivolgemmo loro nel Concistoro del 24 maggio 1802, sottolineando che in tale promulgazione erano stati aggiunti alcuni articoli a Noi sconosciuti, che subito disapprovavamo; con alcuni articoli viene nuovamente sottratta, nei momenti fondamentali di pratica della Religione Cattolica, quella libertà che, all’inizio stesso delle trattative, era stata definita a parole come base e fondamento, ed era stata sancita e solennemente promessa; in altri viene quasi intaccata la dottrina stessa del Vangelo.

Analogo esito ebbe il concordato con il governo della Repubblica d’Italia; vennero interpretati arbitrariamente ed irreligiosamente, con palese frode e volontà di nuocere, proprio quegli articoli che con il massimo impegno avevamo cercato di tener lontani da interpretazioni arbitrarie e fallaci.

Violati in tal modo ed azzerati gli accordi di entrambe le convenzioni, che erano state stipulate in favore della Chiesa, e sottomessa l’autorità spirituale all’arbitrio laicale, non andò assolutamente a buon fine alcuno dei benèfici effetti che Ci eravamo augurati potessero derivare dalle convenzioni; anzi, di giorno in giorno dovevamo dolerci degli aumentati disagi arrecati alla Chiesa di Gesù Cristo. In quest’occasione non riteniamo sia necessario elencarli singolarmente, perché la gente li conosce già bene: essi sono stati deplorati dal pianto di tutti i buoni ed inoltre li abbiamo sufficientemente esposti in due allocuzioni concistoriali che tenemmo l’una il 16 marzo, l’altra il 14 luglio 1808, e che Ci preoccupammo fossero opportunamente rese note per quanto lo consentono le attuali Nostre angustie. In tal modo tutti conosceranno – e la posterità sarà informata – quali siano stati il Nostro giudizio ed il Nostro atteggiamento di fronte a tanti e tanto grandi affronti del Governo Francese e conosceranno di che tempra sia stata la Nostra longanime pazienza, che Ci ha fatto tacere tanto a lungo; infatti, il desiderio di pace che Ci ispirava e la speranza solidamente radicata che presto ci sarebbe stato rimedio a tanto grandi mali, Ci facevano rinviare di giorno in giorno il momento in cui avremmo levato alta la Nostra voce Apostolica. Ora tutti vedranno quali furono le Nostre fatiche, quale il Nostro impegno e come, agendo, pregando, contestando, lamentando, abbiamo cercato senza soste di porre rimedio alle ferite inferte alla Chiesa e di evitare che nuove ne fossero inflitte. Ma invano sono stati impiegati tutti gli strumenti di umiltà, moderazione e mansuetudine, con i quali Ci siamo impegnati fino ad ora a proteggere i diritti della Chiesa contro colui che, fattosi complice degli empi, aveva deliberato di distruggerla dalle fondamenta; contro colui che si era finto amico per tradirla più facilmente e aveva simulato protezione per opprimerla senza ostacoli.

Molte volte ed a lungo fummo indotti a sperare, soprattutto quando vedemmo tanto desiderato ed anelato un Nostro viaggio in Francia; ma subito dopo le Nostre domande furono eluse con motivazioni furbesche, con cavilli e con risposte finalizzate a tirare in lungo o ad imbrogliare. Infine, senza aver risolto nulla di ciò, s’avvicinava il tempo previsto in cui sarebbero arrivati a conclusione i disegni già avviati contro questa Santa Sede della Chiesa di Cristo. Noi eravamo messi alla prova e vessati con sempre nuove, strane e capziose richieste, che comunque si sarebbero risolte in eguale rovina a danno di questa Santa Sede e della Chiesa, sia che, consentendo con esse, ingannassimo turpemente il Nostro ministero, sia che contestandole, la Nostra venisse interpretata come posizione di guerra aperta.

Poiché Noi non potevamo aderire contro coscienza a quelle pretese, se ne trasse subito l’occasione per inviare truppe ostili contro questa Nostra santa città e, preso il forte di Castel Sant’Angelo, per disporre presidi per le strade e nelle piazze. Lo stesso palazzo del Quirinale che Noi abitiamo fu circondato minacciosamente da un grande stuolo di fanti e cavalieri e dall’artiglieria. Noi tuttavia, confortati da Dio al quale tutto dobbiamo e resi forti dalla coscienza del Nostro dovere, non Ci siamo lasciati soverchiare dall’improvviso terrore e dall’apparato bellico e non abbiamo cambiato il Nostro atteggiamento. Con animo pacato e tranquillo, come si conveniva, abbiamo intrapreso le cerimonie previste ed i divini misteri, che si riferivano alla solennità di quel santissimo giorno; né tralasciammo, per paura, dimenticanza o negligenza, alcuno degli impegni che il Nostro ruolo C’imponeva per quel giorno.

Ricordavamo con Sant’Ambrogio (De Basilica tradenda, n. 17) la storia di quel sant’uomo di Naboth, che possedeva una vigna, al quale il re aveva chiesto di cedergliela affinché – tagliate le viti – vi potesse seminare il vile cavolo; ed egli rispose: «Lungi da me che io ceda l’eredità dei miei padri». Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica, né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo cattolico, per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni.

Naboth difese le sue viti col proprio sangue. Potevamo dunque Noi, qualunque cosa stesse per capitarci, tralasciare di difendere i diritti ed i possessi di Santa Romana Chiesa, a conservare i quali, per quanto sta in Noi siamo obbligati dalla solennità di un giuramento? Ovvero, potevamo non rivendicare la libertà della Sede Apostolica, strettamente legata alla libertà ed all’utilità della Chiesa universale?

E quanto grande sia l’opportunità di questo dominio temporale e quanto esso sia necessario per garantire al Capo supremo della Chiesa il libero e sicuro esercizio dell’attività spirituale, la cui responsabilità gli fu affidata dal cielo per tutto il mondo, anche se altre ragioni mancassero, lo dimostra fin troppo chiaramente ciò che sta accadendo adesso. Perciò, anche se non abbiamo mai ambìto agli onori, al potere o alle ricchezze di questo supremo Principato, dal desiderio dei quali Ci siamo sempre tenuti lontani sia per Nostro carattere sia per la natura del Santissimo istituto al quale Ci siamo dedicati con amore fin dalla più giovane età, tuttavia abbiamo ritenuto Nostro dovere d’ufficio (dacché, in quel famoso 2 febbraio 1808, venimmo ridotti a tali angustie) emettere una solenne protesta per il tramite del Cardinale Nostro Segretario di Stato; in essa venivano rese pubbliche le cause dei mali che stiamo subendo e veniva dichiarata la Nostra volontà che i diritti della Sede Apostolica fossero mantenuti integri ed intatti.

Contemporaneamente, gl’invasori – poiché vedevano nulli i loro tentativi – decisero di attuare un’altra strategia nei Nostri confronti. Con persecuzione lenta, crudele ed estremamente molesta si proposero di debilitare la Nostra forza d’animo, che non erano riusciti ad abbattere col terrore improvviso. E così, da quel memorabile 2 febbraio, non passò praticamente giorno senza che a Noi, detenuti nel Nostro palazzo come in una prigione, non venisse inflitta qualche nuova molestia, o non fosse arrecato danno a questa Santa Sede. Tutti i soldati che utilizzavamo per mantenere l’ordine civile e la disciplina Ci furono sottratti e furono mescolati alle milizie francesi. Gli stessi custodi della Nostra persona, nobili e sceltissimi uomini, furono rinchiusi nel forte cittadino; dopo averveli trattenuti per più giorni, vennero dispersi. Alle porte ed ai luoghi più famosi della città vennero imposti presidii; la distribuzione della posta e tutte le tipografie – specialmente quelle della Camera Apostolica e della Congregazione di Propaganda Fide – furono sottoposte alla violenza ed all’arbitrio dei militari. A Noi fu inoltre tolta la libertà di divulgare il Nostro pensiero, a mezzo stampa od altrimenti; l’amministrazione pubblica e la giustizia vennero sconvolte ed impedite; i sudditi furono suggestionati con ogni subdola arte a costituire quelle milizie dette «guardie civiche», ribelli al legittimo principe; fra i sudditi stessi, quelli più facinorosi e malvagi vennero decorati con il distintivo del nastro tricolore francese e italiano, e da questo protetti come da uno scudo, qua e là, impunemente, da soli o a gruppi, andavano girovagando, commettendo qualunque malvagità contro i ministri della Chiesa, contro il Governo, contro ogni persona per bene, a far ciò istigati o tollerati. Le effemeridi o – come vengono chiamati – i fogli periodici, sordi alle Nostre proteste, stampati a Roma e diffusi fra il popolo e all’estero, erano pieni di ingiurie, di motteggi e di calunnie contro la dignità e la potestà pontificie. Alcune Nostre dichiarazioni della massima importanza, firmate di Nostra mano o di mano del ministro per Nostra disposizione, erano state affisse nei luoghi consueti, ma furono strappate, lacerate e distrutte da uno stuolo di vilissime guardie, fra l’indignazione e la protesta di tutti i benpensanti. Giovani incauti ed altri cittadini furono invitati, blanditi e cooptati in adunanze sospette, severissimamente proibite dalle leggi sia civili sia ecclesiastiche, sotto pena di scomunica comminata dai Nostri predecessori Clemente XII e Benedetto XIV. Numerosi Nostri ministri ed ufficiali integerrimi, sia cittadini sia di provincia, a Noi fedelissimi, sono stati vessati, cacciati in carcere, deportati; con la violenza sono state compiute perquisizioni di carte e di scritti di ogni genere nelle segreterie pontificie, nelle documentazioni riservate dei magistrati e non s’è salvato nemmeno il gabinetto del Nostro primo ministro. Tre Nostri primi ministri e segretari di Stato, che fummo costretti ad avvicendare l’uno all’altro, furono portati via con la forza dal Nostro palazzo; infine, la maggior parte dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, cioè i Nostri più vicini e più stretti collaboratori, furono strappati dal Nostro seno e dal Nostro fianco dalla soldataglia e deportati altrove. Queste, dunque, e molte altre iniquità, contrarie ad ogni diritto umano e divino, architettate dagli invasori e perpetrate sprezzantemente, sono troppo note al popolo perché convenga ancora dilungarsi nel raccontarle e spiegarle. Per non apparire in qualche modo d’accordo o conniventi, non omettemmo mai di dolerci di ogni accadimento con la fermezza e la durezza che competono al Nostro ufficio. In tal modo Noi, quasi spogliati dell’ornamento della dignità e del presidio dell’autorevolezza; privati di tutti gli strumenti necessari a compiere i Nostri doveri ed a corrispondere ai bisogni di tutte le Chiese, e da ultimo vessati, tormentati ed oppressi con ingiurie, molestie e terrori di ogni genere, ed impediti ogni giorno di più nell’esercizio di entrambi i Nostri poteri; grazie alla provvidenza di Dio ottimo e massimo, da Noi personalmente sperimentata, dobbiamo unicamente alla Nostra forza, alla prudenza dei ministri che Ci sono rimasti, alla fedeltà dei Nostri sudditi ed infine alla pietà dei fedeli se è sopravvissuta fin qua una parvenza di questi stessi poteri.

Il Nostro potere temporale si era ridotto ad un vano simulacro in quest’alma città e nelle province vicine; nelle floridissime province di Urbino, della Marca e di Camerino in questo periodo Ci è stato interamente sottratto; a tale manifesta e sacrilega usurpazione di tanti Stati della Chiesa non abbiamo mancato di opporre una protesta solenne in modo di premunire i Nostri carissimi sudditi contro le seduzioni di un governo ingiusto ed illegittimo; in questo senso abbiamo dato istruzione anche ai Nostri Venerabili Fratelli Vescovi in quelle province.

Lo stesso Governo quanto durò ancora? Quanto non si affrettò a corroborare con i fatti e a rendere palese ciò che in quella istruzione Noi avevamo indicato dovesse temersi per la Religione?

L’occupazione e lo smembramento del patrimonio di Gesù Cristo, l’abolizione delle comunità religiose, la cacciata dai chiostri delle vergini consacrate, la profanazione dei templi, lo sfrenamento di ogni licenza, il disprezzo della disciplina ecclesiastica e dei sacri canoni, la promulgazione di Codici e di leggi contrari non soltanto ai sacri canoni ma agli stessi precetti del Vangelo ed al diritto divino, l’abbattimento e la vessazione del clero, la soggezione del sacro potere dei Vescovi alla potestà laica, le violenze in molti modi inferte alle loro coscienze, infine la loro violenta cacciata dalle loro cattedre, la deportazione ed altri attentati di analogo genere, nefasti e sacrileghi, contro la libertà, l’immunità e la dottrina della Chiesa, furono improvvisamente introdotti nelle Nostre province come già in precedenza era accaduto altrove, allorché vennero in potere di quel Governo. Questi furono gli splendidi pegni, queste le realizzazioni degne d’un monumento di quel mirabile atteggiamento contro la Religione Cattolica, che tuttora comunque si continua a vantare e promettere.

Noi, ricolmi di tante amarezze, recate proprio da coloro dai quali non le aspettavamo, privati di ogni risorsa, non Ci preoccupiamo tanto della Nostra sorte attuale, quanto di quella che attende i persecutori; infatti, rimproverandoci e riprendendoci, il Signore è attualmente un po’ adirato con Noi. Ma di nuovo si riconcilierà con i suoi servi (2Mac 7,33). Ma chi ha inventato la malizia contro la Chiesa, in che modo eviterà la mano di Dio?. Dio infatti non lascerà impunito alcuno, né si lascerà intimidire da alcuna grandezza mondana, poiché Egli stesso creò il piccolo ed il grande, e più forte è il castigo per i più forti (Sap 6,7).

E volesse il cielo che Noi potessimo, anche a prezzo della Nostra vita, recuperare dalla perdizione eterna e riportare alla salvezza i Nostri persecutori, che sempre abbiamo amato e non abbiamo mai cessato di amare! Magari ci fosse consentito dalla carità e dallo spirito di mansuetudine (1Cor 1,21) ai quali la natura Ci ha destinato e la volontà Ci ha esercitato, trattenerci anche in futuro, come fin qui abbiamo fatto, dall’utilizzare la sferza che Ci è stata data come rappresentanti del beatissimo apostolo Pietro, principe dei pastori, per la correzione e la punizione delle pecore devianti o ribelli, e come esempio e timore salutare per gli altri, insieme alla custodia di tutto il gregge del Signore.

Ma ormai non è più tempo d’indulgenza. A cosa mirino, dove vadano a parare, cosa tentino di ottenere gli attentati così frequentemente compiuti, se ad essi non ci si opponga per tempo, non può sfuggire a nessuno se non a chi volontariamente renda se stesso cieco. Tutti notano infatti che non è rimasta alcuna speranza che i loro autori vengano trattenuti da ripensamenti e riflessioni, né che vengano placati nei confronti della Chiesa da preghiere o proteste. A tutto ciò essi hanno da tempo chiuso l’adito e l’udito e non rispondono se non accumulando ingiurie su ingiurie; non è pertanto minimamente credibile che obbediscano alla Chiesa come i figli ad una madre, o che l’ascoltino come i discepoli l’insegnante, essi, che nulla meditano, nulla fanno, nulla tentano se non di assoggettarla come schiava ad un padrone e, una volta sottomessa, di annientarla del tutto.

Che cosa dunque Ci resta, se non vogliamo incorrere nella taccia di pusillanimi ed inetti o persino in quella di aver iniquamente tralasciato la causa di Dio, che – abbandonato ogni orgoglio umano e dimenticata ogni prudenza fisica – dare attuazione al precetto evangelico: «Se poi non ascolterà la Chiesa, consideralo alla stregua di un Pagano o di un Pubblicano» (Collatione 18)? Capiscano essi finalmente che sono soggetti al Nostro imperio, al Nostro trono, alla legge di Cristo. Anche Noi abbiamo un dominio, e lo consideriamo il principale, a meno che non sia giusto sottomettere lo spirito alla carne e la Chiesa alle vicende mondane (Greg. Nazianzeno, Orat. 18, edit. Manrin). In passato, tanti sommi Pontefici, illustri per dottrina e santità, per l’una o l’altra di quelle colpe che i sacri canoni puniscono con l’anatema, volendo favorire le ragioni della Chiesa contro Re e Principi ostinati, scelsero di percorrere questa estrema via: avremo forse paura di seguire il loro esempio Noi, dopo tante violenze, tante nefandezze, tante atrocità, tanti sacrilegi, così noti ovunque e così conosciuti da tutti? Non Ci dovremmo preoccupare di più, per non essere accusati a buon diritto, di essere arrivati tardi a questa decisione, piuttosto che di esserci comportati temerariamente e frettolosamente? Soprattutto perché con quest’ultimo attentato – il più grave di quanti siano stati commessi contro il potere temporale del Nostro Principato – abbiamo avuto certezza che non Ci sarà restituita maggiore libertà, per corrispondere alle incombenze, tanto gravose quanto necessarie, del Nostro Ministero Apostolico.

Di conseguenza, con l’autorità di Dio onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, chiamiamo a render conto tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’invasione di quest’alma città e del territorio ecclesiastico, e con la sacrilega violazione del patrimonio della Chiesa compiuta dalle truppe francesi, dopo che dovemmo patire tutto ciò che è indicato nelle suddette due allocuzioni concistoriali ed in molte altre proteste e contestazioni (rese note per Nostro volere) che avvennero nella predetta città e nel territorio ecclesiastico, contro l’immunità, contro i diritti della Chiesa e di questa Santa Sede, anche temporali.

Pertanto scomunichiamo ed anatemizziamo nuovamente, se necessario, i loro mandanti, fautori, consulenti, aderenti, o comunque implicati nell’esecuzione dei predetti mali, od operanti autonomamente, che sono incorsi nella maggiore scomunica, e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai sacri canoni, dalle costituzioni apostoliche e dai Concilii generali, in particolare da quello di Trento (Sess. 22, cap. 11, De referen.). Priviamo chiunque di qualunque privilegio, grazia o indulto comunque ottenuto, da Noi o dai Pontefici Romani Nostri predecessori; e da queste censure, nessuno, se non Noi o il Romano Pontefice regnante pro tempore, potrà assolvere e liberare (eccetto che in articulo mortis ed anche allora con la clausola di ricadere nelle punizioni una volta risanati); con l’aggravante che gli scomunicati non potranno conseguire il beneficio dell’assoluzione finché non avranno pubblicamente ritrattato tutti i loro misfatti, li avranno contestati e sconfessati ed avranno reintegrato tutto com’era prima o comunque avranno offerto alla Chiesa, a Noi ed a questa Santa Sede l’adeguata soddisfazione. Coloro poi che sono degni di specialissima menzione ed i loro successori negli incarichi (cui competono la personale ritrattazione, revocazione, cancellazione ed abolizione di tutte le malvagità sopra indicate, od altre equivalenti pratiche, in grado di procurare alla Chiesa, a Noi ed a questa Santa Sede la dovuta e commisurata soddisfazione, talché se ne possa produrre l’effetto disposto in materia dalla presente lettera) non si considerino minimamente liberi o a qualunque titolo emendati, ma sappiano di essere sempre obbligati ad ottenere il beneficio dell’assoluzione. Questo, sulla base delle presenti affermazioni, disponiamo e deliberiamo.

Mentre in verità siamo obbligati a sguainare la spada della severità ecclesiastica, non trascuriamo assolutamente che, per quanto immeritevoli, rappresentiamo in terra Colui il quale, anche quando esercita la giustizia, non si dimentica di essere misericordioso. Perciò ordiniamo e comandiamo, in primo luogo ai Nostri sudditi, e poi a tutti i popoli cristiani, in nome della santa obbedienza, che nessuno ardisca recare danno, pregiudizio, ingiustizia o nocumento a coloro ai quali è diretta la presente lettera, o ai loro beni, diritti o prerogative.

Noi infatti, pur valendoci contro i nemici di quel genere di pena che Dio stabilì essere in Nostro potere, castigando tanto gravi ingiurie arrecate a Dio e alla sua Chiesa, abbiamo soprattutto come obiettivo che si convertano e soffrano con Noi coloro che in questo momento Ci fanno tanto soffrire (S. Agostino, In Psalm. 54, v. 5), se per caso Dio voglia accordare loro una penitenza che li illumini sulla verità (2Tm 2,25).

Perciò, levando le mani al cielo, nell’umiltà del Nostro cuore, mentre rimettiamo a Dio e nuovamente raccomandiamo la giustissima causa – più Sua che Nostra – per la quale stiamo combattendo, ed ancora con l’aiuto della sua grazia Ci dichiariamo pronti a bere fino alla feccia il calice che Egli stesso si degnò di bere in favore della Sua Chiesa, Lo imploriamo e scongiuriamo affinché, per la Sua intima misericordia, ascolti ed esaudisca le preghiere e gli scongiuri che giorno e notte Gli rivolgiamo per il ravvedimento e la salvezza di tali nemici.

Per Noi certamente non vi sarà alcun giorno più lieto e più giocondo di quello in cui Ci sarà concesso dalla divina misericordia di vedere rifugiarsi nel Nostro seno e ritornare, affrettandosi, all’ovile del Signore proprio quei figli che fino ad ora sono stati per Noi causa di tante tribolazioni e tanti dolori.

Decretiamo che la presente lettera e tutto ciò che in essa è contenuto in nessun momento possano essere tacciati, impugnati, infranti, ritrattati o controversi per surrezione, orrezione, vizio di nullità o di Nostra volontà o degli aventi interesse alla censura o per qualunque altro difetto di sorta, né possano essere ridotti a termini di diritto, né contro di essi potrà intentarsi, né impetrarsi alcun rimedio di restituzione in integrum, di «aperitionis oris» o di qualunque altro diritto, fatto o grazia. Ciò, qualunque opposizione facciano i predetti e tutti gli altri in qualunque modo coinvolti, o che asseriscono di avere interesse, di qualunque stato, grado, ordine e dignità, ovvero degni di altra specifica e mirata qualifica; e nemmeno qualora le cause per le quali queste norme furono emanate siano state insufficientemente addotte, verificate e giustificate, o per qualunque altra causa, motivazione, pretesto o punto. Ed anche se fosse impetrato o concesso per scelta, scienza e pienezza di potere, nessuno mai in giudizio o fuori potrà servirsene o giovarsene in alcun modo. Le presenti norme dovranno durare sempre stabili, valide ed efficaci, ed avere ed ottenere il loro pieno e totale effetto; e da coloro cui spetta e spetterà in futuro, dovranno essere inviolabilmente ed intangibilmente osservate; così come emanate, e non diversamente, dovranno essere rispettate da tutti i giudici ordinari o delegati, uditori di cause del Palazzo Apostolico, Cardinali di Santa Madre Chiesa, legati a latere e nunzii apostolici, e da tutti gli altri funzionari di qualunque grado, presenti e futuri, tolta loro ogni facoltà di giudicare ed interpretare altrimenti, dichiarando irrito e nullo tutto ciò che si sentenziasse diversamente, scientemente o ignorantemente, da qualunque autorità derivasse. Nonostante le premesse, e per quanto sia regola abituale Nostra e della Cancelleria Apostolica, nell’introdurre una nuova disposizione giuridica, tener conto delle altre costituzioni ed ordinazioni apostoliche, corroborate anche da giuramento e conferma Apostolica, e da qualunque altro rafforzativo confermato, questa volta deroghiamo da tale criterio; siano essi statuti, usi, consuetudini e stili – anche immemorabili –, privilegi, indulti e lettere Apostoliche, ancorché emanati da qualunque gerarchia ecclesiastica o civile o comunque altrimenti qualificata, e di cui fosse necessaria una speciale menzione, sotto qualunque forma di parole; con tutte le derogatorie di derogatorie e con clausole più efficaci e massimamente efficaci, anche insolite ed annullanti, nonché per altri decreti simili alla presente per indirizzo, scienza e pienezza di potere, concistoriali o comunque concessi, promulgati ed emessi; anche se siano stati replicati più volte ed approvati, confermati ed innovati ripetutamente. Deroghiamo dunque; e vogliamo che sia derogato a tutte le affermazioni contrarie, comunque espresse, nella totalità od analiticità, anche se per la loro deroga esse dovessero essere citate ed inserite per intiero con l’osservanza della forma speciale, specifica, espressa ed indivisibile del loro intiero testo, parola per parola, senza alcuna omissione: con la presente tutto ciò deve intendersi pienamente espresso ed inserito, poiché questa lettera dovrà conservare piena validità in conformità delle premesse.

Siccome poi la presente disposizione, come è noto, non può essere pubblicata con certezza dappertutto, e soprattutto nei luoghi in cui sarebbe più necessario che lo fosse, vogliamo che l’originale o le copie siano affisse e pubblicate, come è d’abitudine, alle porte della Chiesa Lateranense, della Basilica del Principe degli Apostoli, della Cancelleria Apostolica, della Curia generale sul Monte Citorio e nel Campo di Flora in città; ed una volta affissi e pubblicati, tali scritti impongano l’obbligo dell’osservanza a tutti coloro cui compete, come se ciascuno fosse chiamato in causa personalmente e per nome.

Vogliamo inoltre che tutte le trascrizioni o le copie stampate, sottoscritte di mano da un Notaio pubblico, e munite del sigillo di qualche persona insignita di dignità ecclesiastica, ricevano in ogni paese ed in ogni nazione, tanto in giudizio che fuori, lo stesso credito che si presterebbe a questo originale se venisse esposto o presentato. 

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 10 giugno 1809, anno decimo del Nostro Pontificato.

 



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