LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI
IN OCCASIONE DEL GIOVEDÌ SANTO 1979
Venerati Fratelli nell’Episcopato.
Si avvicina il grande giorno in cui noi, partecipando alla liturgia del Giovedì santo insieme ai nostri Fratelli nel sacerdozio, mediteremo l’inestimabile dono, del quale siamo divenuti partecipi in virtù della chiamata di Cristo, eterno Sacerdote. In quel giorno, prima di celebrare la liturgia “In Cena Domini”, ci riuniremo nelle nostre Cattedrali, per rinnovare dinanzi a Colui che si è fatto per noi “obbediente fino alla morte” (Fil 2,8) in totale donazione alla Chiesa, sua sposa, la nostra donazione ad esclusivo servizio di Cristo nella stessa sua Chiesa.
La liturgia ci riporta, in tale giorno santo, dentro il Cenacolo dove, con animo riconoscente, ci poniamo in ascolto delle parole del divino Maestro, parole piene di sollecitudine per ogni generazione di Vescovi che sono chiamati, dopo gli Apostoli, ad assumere la cura della Chiesa, del gregge, della vocazione di tutto il Popolo di Dio, dell’annuncio della Parola di Dio, di tutto l’ordinamento sacramentale e morale della vita cristiana, delle vocazioni sacerdotali e religiose, dello spirito fraterno nella comunità. Cristo dice: “Non vi lascerò orfani, ritornerò a voi” (Gv 14,18). Proprio questo Triduo sacro della passione, morte e risurrezione del Signore ravviva in noi, in grado elevato, non soltanto la memoria della sua dipartita, ma anche la fede nel suo ritorno, nella sua continua venuta. Che cosa significano, infatti, le parole: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)?
Nello spirito di questa fede, che pervade l’intero Triduo, io desidero, venerati e cari Fratelli, che, nella nostra vocazione e nel nostro ministero episcopale, noi risentiamo in modo particolare quest’anno primo del mio pontificato quell’unità di cui furono partecipi i Dodici, quando insieme con nostro Signore si trovarono raccolti per l’ultima Cena. Fu proprio là che essi udirono le parole più onorifiche e insieme più impegnative: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,15ss.).
Si può forse aggiungere qualcosa a queste parole? Non ci si deve, piuttosto, di fronte alla grandezza del mistero che stiamo per celebrare, soffermare, nell’umiltà e nella gratitudine, dinanzi ad esse? Si radica allora ancor più profondamente in noi la conoscenza del dono, che abbiamo ricevuto dal Signore mediante la vocazione e l’Ordinazione episcopale. Infatti, il dono della pienezza sacramentale del sacerdozio è più grande di tutte le fatiche ed anche di tutte le sofferenze connesse col nostro ministero pastorale nell’Episcopato.
Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato e chiaramente illustrato che questo ministero, anche se è un dovere personale di ciascuno, noi lo adempiamo, tuttavia, nella fraterna comunione di tutto il Collegio, o “corpo” episcopale della Chiesa. Se dunque ci rivolgiamo giustamente ad ogni uomo e, in modo speciale, ad ogni cristiano con la parola “fratello”, questa parola, nei riguardi di noi Vescovi e delle nostre reciproche relazioni, assume un significato del tutto particolare: essa risale in un certo senso direttamente a quella fraternità che ha raccolto gli Apostoli intorno a Cristo, a quella amicizia di cui Cristo li ha onorati e per mezzo della quale li ha uniti tra loro, come attestano le citate parole del Vangelo di Giovanni.
Occorre dunque, venerati e cari Fratelli, augurarci, oggi in modo particolare, che tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha così meravigliosamente rinnovato nella nostra coscienza, assuma un sempre più maturo carattere di collegialità, tanto come principio della nostra collaborazione (“collegialitas effectiva”), quanto come carattere di cordiale vincolo fraterno (“collegialitas affectiva”), per edificare il Corpo mistico di Cristo e per approfondire l’unità di tutto il Popolo di Dio.
Incontrandovi nelle vostre Cattedrali con i Sacerdoti diocesani e religiosi che formano il “presbyterium” delle vostre Chiese particolari, delle singole diocesi, riceverete da essi – com’è previsto – la rinnovazione delle promesse deposte nelle vostre mani di Vescovi il giorno della loro Ordinazione sacerdotale. Tenendo presente questo, io indirizzo a parte una Lettera ai Sacerdoti, la quale – come spero – consentirà a voi ed a loro di vivere ancor più profondamente tale unità, cioè quel vincolo misterioso che ci lega nell’unico sacerdozio di Gesù Cristo, portato a compimento col sacrificio sulla croce, che a lui meritò l’ingresso “nel santuario” (Eb 9,12). Spero venerati Fratelli che questa mia parola rivolta ai Sacerdoti, all’inizio del mio ministero sulla cattedra di San Pietro, aiuti anche voi a rafforzare sempre più quella comunione ed unità di tutto il “presbyterium” (Lumen Gentium, 20) che hanno la loro base nella nostra collegiale comunione ed unità nella Chiesa.
Si rinnovi anche il vostro amore verso i sacerdoti, che lo Spirito Santo vi ha dato ed affidato come i più stretti collaboratori del vostro ufficio pastorale. Abbiate cura di loro come di figli prediletti, di fratelli ed amici. Ricordatevi di tutte le loro necessità. Abbiate particolare sollecitudine per il loro progresso spirituale, per la loro perseveranza nella grazia del sacramento del sacerdozio. Poiché nelle vostre mani essi emettono – ed ogni anno rinnovano – le loro promesse sacerdotali e, specialmente, l’impegno del celibato, fate tutto quello ch’è in vostro potere perché essi rimangano fedeli a queste promesse, così come esige la santa tradizione della Chiesa, tradizione nata dallo spirito stesso del Vangelo.
Questa sollecitudine per i nostri fratelli nel ministero sacerdotale si estenda anche ai seminari ecclesiastici, i quali costituiscono in tutta la Chiesa e in ogni sua parte una eloquente verifica della sua vitalità e fecondità spirituale, che si esprimono appunto nella prontezza a donarsi esclusivamente al servizio di Dio e delle anime. Bisogna oggi di nuovo fare ogni possibile sforzo per suscitare vocazioni, per formare nuove generazioni di candidati al sacerdozio, di futuri sacerdoti. Bisogna farlo con autentico spirito evangelico e, nello stesso tempo, “leggendo” nel modo giusto i segni dei tempi, ai quali il Concilio Vaticano II ha prestato una così acuta attenzione. La piena ricostituzione della vita dei seminari in tutta la Chiesa sarà la migliore verifica della realizzazione del rinnovamento, verso il quale il Concilio ha orientato la Chiesa.
Venerati e cari Fratelli! Tutto ciò che scrivo a voi, preparandomi a vivere in profondità il Giovedì santo – la “festa” dei Sacerdoti – desidero collegarlo strettamente all’augurio che gli Apostoli udirono, quel giorno, dalla bocca del loro amatissimo Maestro: “perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Possiamo portare questo frutto solo se rimarremo in lui: nella vite (cf. Gv 15,1-8). Questo egli ci ha detto chiaramente nel suo discorso di congedo, il giorno antecedente la sua Pasqua: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Che cosa di più potrei augurarvi, dilettissimi Fratelli, e che cosa di più possiamo augurarci vicendevolmente, se non proprio questo: di rimanere in lui, Gesù Cristo, e di portare frutto, un frutto che rimane?
Accettate questi auguri. Cerchiamo di approfondire sempre più la nostra unità, cerchiamo di vivere ancor più intensamente il Triduo sacro della Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo.
IOANNES PAULUS PP. II
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